In circostanze normali, l’aver ormai toccato i 50mila contagi da Covid-19 dall’inizio della pandemia renderebbe il Coronavirus la principale emergenza, sulla quale concentrare tutti gli sforzi nazionali. Quattrocentonovantaseimila casi, per una popolazione di circa 5 milioni, significa che oggi, in Libano, una persona su dieci ha contratto il virus: uno dei dati peggiori della regione. Eppure, di Sars-Cov-2 si parla relativamente poco nel Paese dei cedri, perché negli ultimi due anni il senso di urgenza, la disperazione e le frustrazioni della popolazione si accavallano altrove: tra il crollo della valuta locale, un debito pubblico tra i più alti al mondo, l’evaporazione della classe media e la povertà assoluta, pericolosamente vicina al 50%, alle quali si è sommata la devastazione materiale ed emotiva dello scorso 4 agosto, quando al porto di Beirut sono esplose 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio, provocando 200 morti, 5000 feriti, 300mila sfollati e danni alla capitale stimati attorno ai 3 miliardi di dollari. La pandemia, in una situazione del genere, assume quasi le sembianze di un fastidio minore, pur con questi numeri preoccupanti. Un’emergenza sanitaria oscurata da uno stato emergenziale permanente.

Per capire la profondità di una crisi economica che diversi analisti definiscono peggiore di qualunque crisi durante il periodo della guerra civile (1975-1990), basta confrontare dei semplici scontrini del supermercato. Come illustrato in uno specchietto informativo da Al Jazeera, fino a non più di due anni e mezzo fa con 10mila lire libanesi si poteva comprare un litro di latte, un chilo di pomodori, un chilo di arance, un chilo di mele, un chilo di cetrioli, un chilo di riso e un chilo di pollo (più accuratamente mezzo chilo, perché nel 2019 un chilo di pollo costava circa 5mila lire, ndr).

Oggi, con quelle stesse 10 mila, si compra solo un litro di latte. La lira libanese ha perso in un anno oltre il 90% del suo valore, passando da un cambio col dollaro di 1,5 a 12,5. Un recente studio del Lebanon Crisis Observatory, diretto dal professor Nasser Yassin della American University of Beirut (AUB) ha messo in relazione l’aumento vertiginoso del prezzo dei beni alimentari con il recente inizio del mese di Ramadan, sacro a circa metà della popolazione libanese, di religione islamica. Secondo i dati disponibili, oggi un mese di iftar (il pasto col quale si rompe il digiuno del Ramadan, ndr) costa ad una famiglia di cinque persone circa 1,8 milioni di lire (contro le 440 mila di Ramadan 2019): quasi tre volte il salario mensile minimo, che ammonta a 675 mila lire. Salario minimo che nel 2019 valeva circa 450 dollari, mentre oggi ne vale 65. Sempre secondo l’Osservatorio, un singolo iftar “ordinario”, con riso, pollo, insalata, zuppa di lenticchie ed un singolo dattero (col quale tradizionalmente si rompe il digiuno, ndr), costa 60 mila lire, cioè il 268% in più rispetto al 2018.

Sono numeri amari, resi ancor più dolorosi dal fatto che il Libano importa oltre l’80% di quel che consuma e lo fa in dollari, le cui riserve si stanno esaurendo. In molti esprimono preoccupazione per il giorno in cui finiranno i sussidi sulle medicine, sul grano e sul carburante – che in molte stazioni di benzina risulta già razionato, con limiti al rifornimento -, fondamentale anche per alimentare i generatori privati di cui migliaia di libanesi si servono per l’elettricità, che il governo può assicurare per circa 16 ore al giorno in media (a Beirut si va dalle 3 alle 6 ore di blackout programmati al giorno, fuori da Beirut dalle 6 alle 18 ore di assenza di corrente fornita dallo Stato).

Lo scorso ottobre, in seguito alle dimissioni del premier Hassan Diab, l’ex primo ministro Saad Hariri è stato rinominato per l’incarico – che aveva abbandonato ad ottobre 2019, incalzato dalle proteste anti-governative – ma ancora oggi non riesce a trovare un’intesa col presidente della Repubblica, Michel Aoun, per una squadra di governo condivisa. Qualunque esecutivo, in Libano, dovrà fare i conti con una situazione difficilmente governabile: da quando Beirut ha dichiarato il default tecnico a marzo 2020, a causa del mancato pagamento di un Eurobond da 1,2 miliardi, diversi donatori internazionali hanno posto in standby qualunque forma di aiuto finanziario sostanziale, vincolandone l’erogazione alla formazione di un governo “stabile” (che per Washington e parte dell’UE significa senza Hezbollah al suo interno, la quale invece rivendica il suo peso parlamentare, ndr) e alla realizzazione di una serie di riforme (nel settore bancario in particolare) che stentano a vedere la luce. Proprio martedì – al fine di sollecitarle – a Beirut è arrivato David Hale, per quella che è la prima visita in Libano di un sottosegretario del Dipartimento di Stato americano dall’elezione di Joe Biden.

La campagna vaccinale, intanto, è iniziata da un paio di mesi, e nonostante la possibilità di acquistare diversi tipi di vaccino – sono appena arrivate 50mila dosi del cinese Sinopharm, per giugno ne arriveranno 750mila di Pfizer – va abbastanza a rilento. Secondo i dati del ministero della Sanità, finora il Libano ha inoculato 285 mila dosi di vaccino; l’1,3% della popolazione risulta vaccinata, il 2,3% ha assunto la prima dose e il 15% si è registrata, e rimane in attesa di somministrazione.

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