Alla fine hanno vinto i Benetton. Dal 14 agosto 2018, data tragica in cui crolla il ponte Morandi e perdono la vita 43 persone, ad oggi la posizione dei principali azionisti di Autostrade per l’Italia si è lentamente, ma inesorabilmente, rafforzata. Dalla revoca delle concessioni senza se e senza ma, si è arrivati ai dieci miliardi messi sul piatto di Atlantia per rilevare Autostrade per l’Italia (Aspi). La holding che in realtà possiede “solo” l’88% di Aspi, riceverebbe fino a 8,8 miliardi. Ai Benetton, che di Atlantia hanno il 30%, andrebbero 2,6 miliardi di euro.

Eppure, nei giorni successivi al disastro la politica faceva la faccia feroce: “Avvio immediato dell’iter per la revoca delle concessioni” si sbandierava ai quattro venti. E poi maxi multe, dimissioni dei vertici della società, nuove e più stringenti regole per le future concessioni, drastica riduzione dei pedaggi. Alla fine, nessuno dei tre governi che si sono nel frattempo succeduti, è riuscito davvero a realizzare questo programma, se non in minima parte. Questo nonostante le indagini sul disastro qualche appiglio lo abbiano fornito, con le responsabilità della società nella carente manutenzione del viadotto messe nero su bianco nelle carte delle indagini. Ma il processo è ancora in corso. Alla fine l’unica testa a cadere è stata quella dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, dimessosi nel 2019 e finito agli arresti (poi revocati) a causa dei contenuti di intercettazioni in cui, tra l’altro, si parlava della soddisfazione dei Benetton per i risparmi sulla manutenzione della rete autostradale.

La strada della revoca anticipata delle concessioni è apparsa in realtà da subito tortuosa e incerta. Questo nonostante nel febbraio 2020 il governo riduca per decreto da 23 a 7 miliardi il risarcimento da corrispondere. Mossa comunque non intaccabile sul piano del diritto. Le trappole giuridiche sono tante, i rischi di imbarcarsi in un lungo contenzioso legale dagli esiti incerti preoccupano. La “prova di forza” viene minacciata ma mai attuata, anche perché l’Unione europea vigila sul rispetto delle regole di diritto e sulla tutela degli azionisti di minoranza. L’ipotesi revoca continuerà ad essere sventolata come uno spauracchio ma con un effetto che scivola pian piano nell’insignificanza.

Il governo continua però a premere perché i Benetton mollino la presa: Autostrade dev’essere ceduta. La famiglia veneta non dice di no ma naturalmente tutto dipende dal prezzo. E qui parte un altro lungo braccio di ferro. Lo scorso 15 luglio dopo un lungo e teso vertice notturno a palazzo Chigi tra società e governo, una soluzione inizia a prendere forma. Il punto fermo è la cessione della partecipazione di maggioranza a Cassa depositi e prestiti e un graduale disimpegno della famiglia Benetton. A questo punto però parte il balletto sul valore dei Autostrade e quindi sulla cifra da pagare. “Ha da passà ‘a nuttata” si dice a Napoli, ma lo sanno bene anche a Ponzano Veneto. Ogni giorno che passa è un punto a favore di Atlantia. Si parte da una valutazione iniziale di Autostrade di circa 6 miliardi di euro, quattro in meno della cifra raggiunta oggi. Calcolare il valore di un concessionario che può contare su incassi più o meno stabili nel tempo, è relativamente semplice. Ma le incertezze legali e l’ammontare dei risarcimenti complicano la faccenda.

Inoltre Atlantia ha tra i suoi soci non solo i Benetton ma anche importanti soggetti finanziari internazionali. Dal fondo sovrano di Singapore Gic, alle banche Hsbc e Lazard, fino a combattivi fondi speculativi come il britannico Tci. Se per i Benetton non tirare troppo sul prezzo può avere un senso, viste le connessioni che da tempo la famiglia coltiva con la politica, lo ha molto meno per gli altri soci. Che infatti si appellano all’Unione europea per chiedere il pieno rispetto delle condizioni di mercato dell’operazione. Il governo Conte 2 prova anche a legare i destini di Autostrade a quelli di Alitalia, sollecitando un impegno finanziario di Atlantia nell’ennesimo tentativo di rilancio della compagnia. Non se ne farà nulla. L’emergenza pandemia fa passare il dossier in secondo piano.

Lo scorso ottobre Cdp, insieme ai fondi Blackstone (statunitense) e Macquaire (australiano) presenta finalmente una prima offerta ad Atlantia. Che viene rimandata al mittente. Autostrade viene valutata tra i 7 e i 9 miliardi, ma poi ci sono altri calcoli come quello sui possibili futuri risarcimenti che resterebbero a carico di Atlantia. Quindi la vera cifra è più bassa. Il fondo inglese Tci fa sapere di ritenere congrua una valutazione di almeno 2 miliardi più alta. In dicembre arriva una seconda offerta di Cdp. Non cambia molto e non cambia neanche la risposta di Atlantia. Poi, con il cambio di governo, tutto si congela per un po’. Lo scorso febbraio il gruppo Gavio rileva la quota di minoranza di Astm. E’ un’operazione che non ha direttamente a che fare con Atlantia. Ma pur sempre di autostrade si tratta e le cifre pagate forniscono elementi a favore di chi sostiene che il vero valore di Aspi sia più alto di quello offerto da Cdp e soci.

Si arriva così alla nuova offerta dello scorso 25 marzo. La cifra non cambia molto: 9,1 miliardi per il 100% di Autostrade. Ma questa volta la proposta è vincolante (ossia impegna il proponente se accettata) e la cifra è “reale”. Tra ristori Covid e riduzione del rischio risarcimenti la somma finale non dovrebbe infatti discostarsi molto da quella prospettata. Tant’è che da Atlantia arriva una sostanziale apertura seppur con contrasti tra i soci. Sembra quasi cosa fatta. Meglio, sembrava. La proposta arrivata dalla Spagna riapre infatti i giochi. Difficile dire come andrà a finire. L’unica cosa quasi certa è che il prezzo pagato ai soci di Atlantia si alzerà ancora un po’.

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