L’impronta ecologica è la porzione di natura che una specie usa per sostenersi. La nostra impronta indica che consumiamo più di quello che la natura produce: viviamo a debito. Coltiviamo piante e alleviamo animali per nutrirci e ottenere materiali per i nostri manufatti, estraiamo materiali inerti, dal petrolio all’uranio, che elaboriamo per i nostri scopi. I sistemi di raccolta, stoccaggio, distribuzione e vendita occupano spazio accessorio, consumano energia e generano scorie e rifiuti. Grazie a una strategia “estrattiva” sempre più efficiente la nostra popolazione cresce a dismisura, ma cresce anche la sua impronta.

Un tempo producevamo energia dal cibo, il combustibile dei lavoratori umani e animali (buoi, cavalli, cammelli, cani), dal vento e dai fiumi, con vele e mulini. Bruciando il legno ci siamo scaldati e abbiamo cucinato, poi abbiamo prodotto energia con il vapore, l’elettricità, il motore a scoppio, basandoci sempre sulla combustione di legna, carbone, petrolio, gas. Non abbiamo abbandonato la combustione, l’abbiamo solo resa più efficiente.

William Stanley Jevons, un economista coetaneo di Darwin, avvertì che questo sviluppo ha conseguenze paradossali: l’innovazione tecnologica che migliora l’estrazione o la produzione di una risorsa porta ad un aumento del consumo di quella stessa risorsa, mettendone a rischio l’integrità. Dato che le risorse che usiamo derivano tutte dalla natura, è l’integrità della natura ad essere a rischio. Oggi non preleviamo risorse da popolazioni naturali di animali terrestri, come un tempo facevamo con la caccia: abbiamo decimato le popolazioni naturali e siamo passati all’allevamento del bestiame.

Ancora possiamo prelevare animali marini, con la pesca, ma per quanto? Un tempo i battelli si muovevano a remi e a vela, e gli attrezzi da pesca erano azionati a braccia. Il successo della pesca fece diminuire le popolazioni di pesci e noi, invece di allentare la pressione, abbiamo inventato nuove tecnologie: motori, verricelli, sistemi di localizzazione per scovare i pesci, e di refrigerazione per conservarli. L’innovazione tecnologica ha aumentato l’efficacia dell’estrazione della risorsa, e la pressione su di essa. Quando i pescherecci sono diventati efficientissimi… sono finiti i pesci e si è realizzato il paradosso di Jevons.

La nostra “preda” è il resto della natura: se le risorse diventano difficili da ottenere, inventiamo tecnologie più efficienti nell’estrarle, siano esse pesci o petrolio. Come i pesci, anche il resto della natura è in condizioni critiche per la pressione che esercitiamo su di essa, e se tutti vivessero come noi avrebbe già subito un collasso per noi esiziale.

La globalizzazione è, prima di tutto, ecologica e demografica. Non ci sono barriere né per gli inquinanti né per lo spostamento di esseri umani. Chi si trova nelle parti svantaggiate del pianeta tende a spostarsi in quelle avvantaggiate. Dobbiamo darci una regolata, o ce la darà la natura. L’Europa ha deciso, con la transizione ecologica, di rendere sostenibili i suoi sistemi di produzione e consumo, diminuendo la propria impronta ecologica. Per farlo deve infrangere il paradosso di Jevons e inventare tecnologie che non esauriscano le risorse, permettendone il rinnovo: la transizione ecologica è il passaggio da un’economia insostenibile a un’economia sostenibile.

Le nuove tecnologie si devono fondare su principi ecologici. Abbiamo un bisogno disperato di tecnologi, ma devono agire assieme agli ecologi, formando una nuova alleanza che rompa il paradosso di Jevons. Per il momento continuiamo ad essere “estrattivi”: sopperiamo alla mancanza di pesci con l’acquacoltura intensiva, e alleviamo specie carnivore (salmoni, spigole, orate) che nutriamo con farine di pesce selvatico di scarso valore commerciale, con l’illusione che questa tecnologia ci darà ulteriori risorse dagli ambienti acquatici. Questa “innovazione” è tanto folle quanto mangiare leoni nutriti con le mucche.

La transizione ecologica si otterrà con pressioni dal basso, da parte dei consumatori divenuti più consapevoli nelle loro scelte. Ma non basta. È inutile acquistare un’auto elettrica se l’elettricità viene prodotta da centrali a carbone (per non parlare dello smaltimento delle batterie), o essere vegetariani se mangiamo i prodotti dell’agricoltura intensiva. Molte scelte dovranno venire dall’alto. Non ci sono bacchette magiche che risolvano il problema all’istante, ma tutti i nostri sforzi innovativi dovranno andare in quella direzione. Dovremo passare dall’efficienza dell’estrazione all’efficienza dell’utilizzo, scegliendo risorse che si rinnovino in armonia con i nostri consumi, modulando le nostre richieste che, oggi, sono basate sull’aspettativa della crescita infinita dell’economia.

Possono esistere un’economia e una società fiorenti in una natura devastata? Non è possibile. La transizione ecologica è nel nostro interesse. L’Europa lo ha capito. Lo capiranno i singoli Stati? L’Italia non lo ha capito: basiamo la transizione ecologica esclusivamente sull’innovazione tecnologica, senza l’applicazione di principi ecologici, basati sull’integrità di biodiversità ed ecosistemi. Il rimedio si basa sui principi che hanno generato il problema, e il paradosso di Jevons è in agguato.

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