È un assioma. La maggior parte delle piccole aziende italiane affonda le proprie radici nella grande competenza artigiana. L’abilità nella realizzazione del prodotto, il saper fare che non teme confronti sono la cifra che contraddistingue tutto un modello imprenditoriale. Sappiamo fare bene il prodotto ma, lo ripeto da tempo, temi come il controllo sul ritorno del capitale investito, la valutazione dei processi aziendali, la gestione delle risorse umane, il controllo della soddisfazione del cliente sono considerati da sempre con grande distrazione.

Questa è una prima ragione della debolezza della nostra piccola imprenditoria. Manca una visione del mercato, siamo troppo attenti a guardarci allo specchio e dirci quanto siamo bravi. E se le cose non vanno è sempre colpa del mondo esterno. Ma se sappiamo fare bene il prodotto, e questo ce lo può dire solo il cliente, allora sfruttiamo questa opportunità per finanziare il resto, quello che ci manca. Come?

Con il reward-based crowdfunding, un metodo di raccolta di denaro tramite piattaforme web specializzate in cui gli utenti offrono denaro, non in cambio di quote di capitale delle aziende presentate (come nel caso dell’equity crowdfunding), bensì in cambio di una ricompensa (reward), che può essere il prodotto o il servizio (fornito in questo caso a prezzo scontato o in una forma esclusiva rispetto alla normale produzione) per il quale si chiede il finanziamento.

In sostanza in questo modo le aziende decidono di rivolgersi al popolo di internet per vendere in anticipo il proprio prodotto o servizio e testarlo con il pubblico. Il reward crowdfunding è un modello di finanziamento dal basso che viene spesso assimilato ad una prevendita (pre-selling o pre-ordine) di un prodotto o di un servizio. È, insomma, un modo per finanziare la produzione di un prodotto o un servizio che ancora non c’è oppure, in caso di magazzino già pieno, per sostenere la crescita in altri aspetti della gestione aziendale.

I progetti di reward-based crowdfunding in Italia sono stati più spesso legati a iniziative benefiche, ma via via le aziende stanno capendo che, in realtà, si tratta di uno strumento alternativo di finanziamento del business. E ovviamente le prime aziende a capirlo sono state quelle più tech. Oggi la raccolta media per progetto è di poco superiore ai 15mila euro con una percentuale di successo delle campagne del 54%. In base alla natura della piattaforma scelta per la campagna, il meccanismo della ricompensa segue, in sostanza, due modelli:

1) All or nothing

Secondo questo schema (tutto o niente), il progettista riceve i fondi donati dai sostenitori solo al raggiungimento dell’obiettivo economico della raccolta. Stessa cosa vale per la percentuale di commissione rilasciata alla piattaforma, che incassa la commissione – appunto – solo a obiettivo raggiunto.

2) Keep it all

Secondo questo schema (tieni tutto), il progettista incassa i fondi donati dai sostenitori attraverso la campagna, anche nel caso in cui l’obiettivo economico non sia raggiunto. Anche la piattaforma, quindi, incassa la percentuale di commissione pur qualora l’obiettivo della campagna non sia raggiunto. In questo caso, la percentuale di commissione corrisposta alla piattaforma è più alta.

È chiaro quindi che il rapporto tra il crowd e il progettista si basa sulla fiducia: il denaro inviato dai sostenitori finisce direttamente sul conto del progettista.

Ma, e qui bisogna stare attenti, occorre verificare che poi il progettista utilizzi il denaro ricevuto per lo scopo dichiarato, perché questo aspetto non è garantito dalla piattaforma. Anche in Italia il modello funzionava. Almeno fino al 2016. Infatti, le piattaforme di reward crowdfunding, secondo l’ultimo report dell’Università di Cambridge sulla finanza alternativa e relativo agli ultimi dati aggregati disponibili (2017), avevano raccolto nel 2016 in Italia per il reward-based crowdfunding circa 20 milioni. Nel 2017 la raccolta ha subito un drastico calo (-46%) rispetto all’anno precedente, passando a circa 11 milioni di euro, soprattutto per effetto della confusione legislativa in merito alla applicazione dell’Iva sulle operazioni in oggetto.

In sintesi si tratta di una pre-vendita, nel qual caso l’Iva va pagata dal progettista, oppure di una donazione, esente dalla imposta? Forse è il caso che anche il legislatore si preoccupi della crescita del nostro tessuto imprenditoriale. Soprattutto per uscire da questa fase di crisi.

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