Le parole hanno corpo, forza, intelligenza. Possono essere pietre, e la bocca la loro fionda. Possono essere crudeli o gentili, ipocrite o visionarie. La politica ha bisogno delle parole per farsi intendere, e usa le parole per costruire il mondo che immagina. Giuseppe Conte ha chiesto, durante l’incontro con gli eletti dei Cinquestelle, di cambiare un po’ le parole depositate in magazzino, alleggerirne la carica troppo “aggressiva” ed edificare un linguaggio più dolce.

Forse più docile?

Qui è l’intesa e qui resta anche alto il rischio del fraintendimento.

Perché la parola segue il pensiero e quando questo latita la lingua esplode. La bocca diventa fionda, la parola si converte in giudizio e il giudizio in epiteto.

Dunque prima di parlare, pensare. E più il pensiero è forte, consolidato, dibattuto, verificato, più il linguaggio che lo illustrerà sarà appropriato. E non ci sarà bisogno di sdolcinarlo, di mimetizzarlo in gentilezze di maniera, di ridurlo a una poltiglia di luoghi comuni.

Anzi, più forte e netto sarà, più visibile e chiara diverrà la posizione assunta. Anche se acuminate, le parole che sostengono un pensiero restano degnissime e appropriate.

La questione, se ho inteso e non frainteso, è di non cadere nella trappola della parola senza pensiero, dell’agire senza un obiettivo, dell’accusa senza prova, del graffio inutile e cattivo, dell’annuncio senza aver provveduto a misurare i fatti che servirebbero per renderlo attuale.

La parola può esser crudele anche verso sé stessi.

Uno vale uno, per esempio. In certi casi non è affatto vero che uno valga l’altro.

Bastava solo pensarci prima.

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