Venerdì è stato un giorno storico per la scuola italiana. Non solo. È stato un giorno storico anche per la società civile e per la democrazia italiane. Durante la giornata, in sessanta piazze c’è stata la manifestazione a favore delle scuole aperte organizzata da “Priorità alla scuola”, una rete capillare, diffusa in tutta Italia, che da mesi si batte per la riapertura delle scuole. Domenica scorsa avevano manifestato in 36 piazze anche gli aderenti alla Rete Nazionale “Scuole in presenza”. Nessuna rivalità o distinzione tra le due reti, che anzi si battono per gli stessi, identici, obiettivi, anche se “Priorità alla scuola” include anche gli insegnanti.

In piazza si sono visti cartelli meravigliosi, ironici, a volte anche commoventi. Tutti contro la Dad – sempre venerdì la rete ha lanciato lo “Sciopero della Dad”, una giornata a computer spenti per protestare contro quella che non è didattica vera – che sta causando discriminazioni pesantissime tra alunni di diverse età, provenienza geografiche, ceto sociale. Ma che crea anche, come ormai riconosciuto da tutti gli esperti, alienazione, depressione, abbandono scolastico non solo nei più piccoli ma anche negli adolescenti che da un anno intero vivono praticamente serrati tra le mura di casa.

Ma la giornata di venerdì è stata fondamentale anche perché il Tar ha accolto le istanze di richieste cautelari di due ricorsi presentati da “Rincorriamo la scuola di Firenze” con l’avvocato Jacopo Michi e da “A scuola” con Onida Randazzo, che chiedono di riesaminare la chiusura delle scuole, anche in zona rossa, perché le chiusure del Dpcm del 2 marzo “non appaiono supportate da un’adeguata istruttoria”. In pratica, mancano “evidenze scientifiche incontrovertibili circa il fatto che il contagio avvenuto in classe influisca sull’andamento generale del contagio”, non è cioè dimostrato che “l’aumento del contagio tra soggetti in età scolastica sia legato all’apertura delle scuole e che la cosiddetta variante inglese si diffonda maggiormente nelle sole fasce di età scolastiche”. Molti si sono affrettati a dire che comunque la sentenza è stata superata perché Mario Draghi ha deciso di riaprire le scuole fino a 11 anni. In realtà così non è, perché la sentenza si riferisce anche alla chiusure oltre gli 11 anni, quindi il governo dovrà dimostrare che esse sono fondate su dati certi e non basate su una tesi, che ormai suona anche abbastanza ideologica, quella per cui gli adolescenti siano fonti di contagio e vadano messi in Dad (anche forse pensando che la Dad su essi abbia effetti meno gravi: è vero, ma non dopo un anno!).

In ogni caso, nei giorni passati Draghi ha fatto due cose importanti. Ha deciso di riaprire le scuole anche in zona rossa – le aveva chiuse lui, durante il Governo Conte erano rimaste sempre aperte –, ma soprattutto ha detto chiaro e tondo ai governatori che le chiusure non possono più essere legate a ordinanze regionali basate su decisioni personali, spesso ingiustificate e arbitrarie. Che le chiusure delle scuole devono essere nazionali, la discriminazione degli alunni tra le diverse regioni è intollerabile. Un passo importante, perché invece, va detto, Giuseppe Conte sulle chiusure regionali poco aveva fatto, così come nulla aveva fatto il Partito Democratico con i suoi governatori sceriffi come Emiliano e De Luca, che oggi finalmente dovranno smettere di imporre decisioni odiose e talvolta vagamente persecutorie verso bambini e ragazzi.

È vero, resta il problema degli adolescenti, a cui speriamo la sentenza del Tar possa dare una mano. Ma quello che è accaduto nelle scorse settimane è un fatto importante. Il governo, e pure i governatori, hanno finalmente capito che la scuola aperta è qualcosa di fondamentale, che va sottratta alla conta dei contagi perché non è un’attività come le altre. Hanno capito anche che la didattica a distanza crea danni, che le famiglie senza scuola sono ridotte alla disperazione, specie quando si hanno bambini piccoli. Tutto questo, però, non è stata la conseguenza di una riflessione interna ai partiti. No. È stato frutto di una delle pù grandi mobilitazioni degli ultimi anni. Quella dei genitori e di una parte degli insegnanti. In questi mesi hanno fatto di tutto, spesso nel silenzio dei giornali: manifestazioni, campagne di sensibilizzazione con cartelloni per le città, raccolte fondi, proteste, ricorsi al Tar ogni volta che potevano – ci sono regioni dove si è andato a scuola in questi mesi solo grazie ai tribunali – petizioni, addirittura ricerca di dati e di studi alternativi e autorevoli, come quelli dell’epidemiologa Sara Gandini. Intorno alla scuola ferita e colpita è nato un nuovo attivismo civile, importante e determinato ad andare avanti.

Se non avessero fatto niente, se non avessimo fatto niente, le scuole sarebbero ancora serrate. Perché quello che ormai è evidente è che la chiusura è stata determinata non solo e non tanto da scelte epidemiologiche, ma soprattutto culturali e politiche. Da una visione ignorante e cieca che poco o nulla sa di scuola e che l’ha ritenuta qualcosa di secondario, come hanno dimostrato i vari governatori. Ma i genitori – aiutati un po’ anche dalla stampa che si è svegliata come al solito troppo tardi – quando il tema era ormai diffuso, hanno anche vinto un’altra battaglia. Quella di dimostrare che la fantomatica didattica a distanza non è vera didattica, non è completa, non può funzionare, che l’uguaglianza tra ragazzi non è quella digitale, avere tutti un pc, come recita un slogan di un grande gruppo editoriale proprio in questi giorni. Anche questo non era scontato.

Adesso la strada è più in discesa. Nessun governo avrà il coraggio di toccare la scuola dei piccoli, speriamo anche quella dei “grandi”. Manifestare, lottare, perdere tempo e notti a scrivere petizioni e creare reti, ha portato a un risultato importante, nonostante tutti i fallimenti durante il cammino e i momenti in cui si credeva che non ce l’avremmo fatta, lo scoraggiamento, la desolazione. Quello ottenuto è un risultato storico. Non so se i politici se ne sono accorti, noi sì. E la base che si è creata resterà per le battaglie future, perché in tempi di crisi climatiche e sanitarie la difesa dei diritti fondamentali, quale quello allo studio, sarà sempre più fondamentale. Perché chiudere un asilo nido non è lo stesso che chiudere un sala giochi.

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