A notte fonda, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato una “vittoria storica, per il Likud e per la destra”, mentre lo spoglio della quarta tornata elettorale negli ultimi due anni in Israele si attestava attorno al 50%. Parole forse alimentate dalla sensazione di aver beneficiato di questi ultimi tre mesi, che precedono il processo per corruzione che dovrà affrontare il mese prossimo, e nei quali Israele ha ottenuto milioni di dosi del vaccino Pfizer annunciato provvidenzialmente a dicembre, grazie al quale Tel Aviv ha vaccinato quasi metà della popolazione, riaprendo gran parte delle attività commerciali.

Gli exit poll dei tre principali canali israeliani hanno attribuito al partito Likud – fondato da Netanyahu – un vantaggio notevole in termini relativi, con 31 seggi quasi certamente assicurati, circa il doppio di quelli che andranno a Yesh Atid – guidato dal giornalista Yair Lapid -, seconda formazione politica del paese e capofila del blocco avverso al primo ministro. Tuttavia, l’ottenimento di una solida maggioranza – 61 dei 120 seggi della Knesset – a sostegno dell’attuale premier non sembra così scontato, e in ogni caso non avrà tempi brevi, senza escludere l’estrema ratio di un ennesimo ritorno alle urne. Decisivo, per i destini di Netanyahu, dovrebbe essere il ruolo di Yamina, partito di estrema destra e sostenitore degli insediamenti coloniali nella West Bank, guidato da Naftali Bennett, al quale vengono attribuiti tra i 7 e i 10 seggi, che si sommerebbero ai 53-54 attribuiti al fronte pro-Netanyahu.

Così come Gideon Sa’ar – che è passato apertamente all’opposizione, fondando Nuova Speranza, che ha deluso le attese – anche Bennet appartiene alla categoria degli ex alleati ed amici di Netanyahu, che in momenti diversi hanno rotto col premier. A differenza di Sa’ar, però, Bennett ha sempre escluso un’alleanza con il “blocco del cambiamento” di Lapid, mentre ha spesso glissato sulla possibilità di riunirsi con Bibi, lasciando intendere agli analisti di voler capitalizzare al massimo la sua centralità elettorale. Esattamente lo scenario che sembra profilarsi, perché il premier non ha di fatto più spazio per cercare ulteriori voti alla sua destra.

La possibilità che Netanyahu formi un nuovo esecutivo dipende anche molto dalle scarse possibilità che il blocco a lui avverso ha di formare a sua volta un esecutivo. Anche al di là dei numeri che tecnicamente potrebbero ancora premiarlo, nel fronte anti-Netanyahu sono confluiti partiti incompatibili tra loro: un improbabile calderone tenuto insieme solo dall’idea di voler porre fine ai 12 anni consecutivi di governo Netanyahu ma senza una vera proposta comune, con alcuni partiti che hanno già escluso di poter governare con altri.

Netanyahu in questi due anni è rimasto in carica, dapprima come ministro reggente, poi come vertice di un governo di unità nazionale dalle premesse estremamente fragili, in compagnia di alcuni dei suoi più accesi rivali. Le inevitabili elezioni sono state indette durante quello che sembra il tramonto della pandemia in Israele, ma dopo mesi di forte crisi economica, migliaia di morti di Covid-19, con una disoccupazione a due cifre, due anni di totale stallo politico nei quali non è stato possibile approvare due bilanci consecutivi.

C’è una verità inconfutabile nelle parole che Netanyahu ha pronunciato a Gerusalemme a tarda notte, citate all’inizio. Per “la destra”, in Israele, è una vittoria in ogni caso. Lo spostamento verso posizioni più reazionarie da parte dell’elettorato israeliano a partire dal 2003 ha subito nell’ultimo decennio l’apporto supplementare di un populismo demagogico di cui lo stesso Netanyahu è antesignano, e che ha trovato forse il suo zenit nella figura di Donald Trump, forse il più apprezzato presidente americano nella storia dello Stato ebraico. Le vicende giudiziarie di Bibi hanno alimentato nella destra israeliana una serie di fratture e polarizzazioni, che per certi versi hanno ricordato quelle createsi nel partito repubblicano americano sulla figura di Trump, in grado di mettere quasi in discussione lo storico bipartitismo americano.

Se però negli Stati Uniti il bipartitismo assicura almeno un grado di eterogeneità politica, il pluripartitismo israeliano sta favorendo lo scenario di uno schiacciamento a destra e della destra: un fronte pro-Netanyahu formato dal Likud, da partiti ultraortodossi come Shas e altri partiti di estrema destra religiosa, ed un conflittuale fronte anti-Netanyahu formato in gran parte da partiti di estrema destra laica e ultranazionalista, destra e centro destra, con eccezione di Meretz e del partito laburista, ormai simulacri di quel che furono. Netanyahu o meno, “Israele non è mai stato così tanto a destra”, sostengono al Jerusalem post – riferendosi soprattutto alla questione palestinese – ma anche molti altri analisti israeliani, anche quando non escludono un ennesimo e clamoroso ritorno alle urne, nel caso in cui Netanyahu e Bennett non dovessero ritrovare un’intesa.

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