“Dopo la laurea trovavo soltanto lavori brevi e gratuiti in ambulatori privati, a cui dovevo perfino il tacito ringraziamento per la possibilità di fare esperienza. Per questo, sette anni fa, ho deciso di partire”. Chiara Calandra, nata nel 1986, ha sempre avuto nel cuore Palermo e la fisiologia del mondo animale, così ha studiato Veterinaria in Sicilia e lì ha cercato di rimanere. Ma stanca di opportunità precarie e quasi gratuite, nel 2013 si è trasferita in Francia, dove ha da poco avuto un figlio e lavora in diverse cliniche veterinarie nel dipartimento della Val-d’Oise, nell’Île-de-France.

“Nei primi mesi di Covid-19 ho vissuto con ansia la lontananza da casa e il rischio di non potere vedere i miei familiari in caso di ricovero o di non potere presentare loro mio figlio, nato nel pieno della pandemia. Poi mia madre è riuscita a raggiungerci e questo ci ha rasserenati”. Il suo parto è avvenuto nel mezzo dell’emergenza: “La mia esperienza con la sanità francese, anche durante il Covid, è stata molto positiva. Alcune misure forse sono state leggere ma nel complesso secondo me il sistema funziona”.

Quando Chiara era in Italia, progettare una famiglia era impossibile, perché non riusciva a dare stabilità a quegli obiettivi professionali per cui tanto aveva sudato. “Ho iniziato a lavorare in Sicilia accettando proposte indegne: quando andava bene mi pagavano poche centinaia di euro al mese, senza tutele e senza diritti. Dopo un po’ ho capito che per i veterinari italiani il mercato del lavoro in patria è inesistente”. Allora ha fatto i bagagli ed è andata in Francia, dove un suo collega aveva vinto un posto e dove sapeva che avrebbe potuto trovare qualcosa anche lei. “Qui le facoltà di Medicina veterinaria sono solo quattro e sono chiamate ‘Grandes écoles’: scuole di alta formazione in cui gli studenti – che amo definire ‘macchine da guerra’ – sono gradualmente accompagnati dalla teoria alla pratica”.

La sua prima tappa è stata Nantes: “Sono arrivata come alunna stagista, poi ho avuto un contratto a tempo determinato come resident (specializzanda in un percorso internazionale chiamato Residency) in Nutrizione clinica”. L’approccio non è stato semplice e integrarsi per niente immediato: “Conoscevo soltanto l’inglese e a livello scolastico, quindi ho avvertito la bolla dell’isolamento linguistico, poi la durezza del clima, le difficoltà economiche e le relazioni sociali che ingranavano lentamente mi hanno messa a dura prova”. Ma con un po’ di tenacia, le possibilità lavorative hanno favorito anche il suo percorso di vita. “Dopo un periodo a Nantes mi sono indirizzata verso l’attività clinica e diagnostica nella regione di Parigi dove ora lavoro con un contratto a tempo indeterminato, chimera per molti colleghi e coetanei rimasti in Italia”.

La differenza nella professione è sostanziale: i veterinari italiani spesso escono dall’università senza sapere come si affronta un caso clinico: “Fino alla laurea – racconta – non ho visto un paziente. L’inserimento nella pratica è stato violentissimo e ho dovuto farmi le ossa da sola”. In Francia invece c’è un percorso creato ad hoc per i laureandi: “Gli studenti qui incontrano i primi pazienti al quarto anno: fanno ipotesi diagnostiche e tramite un sistema gerarchico sono orientati a riflettere sul caso clinico con la supervisione di diverse figure senior che vanno dallo specialista di Medicina veterinaria interna all’assistente responsabile del reparto al professore”.

Ma Chiara, che non si reputa un cervello in fuga, ci tiene a precisare: “Mi indigna sentire parlare di fuga di cervelli: sembra quasi che la responsabilità sia di chi va via, come se rubasse all’Italia una preparazione che poi spende altrove”. La sua opinione è netta: “A nessuno piace abbandonare la famiglia, la propria terra e affrontare i disagi di una vita inizialmente aspra e disagiata: andare via è sempre traumatico ma non si dice mai che chi va via è costretto a farlo”. Certo, c’è chi emigra per scelta, per cercare migliori opportunità all’estero, “ma nel mio caso – dice lei – il disinvestimento culturale inizia dalle università siciliane: sistemi di potere intoccabili dove sembra quasi che si faccia carriera per diritto familiare”.

Per la sua esperienza, all’estero questo non c’è o almeno non è così evidente. E se è arrivata lontano non è stato merito della formazione fatta in Italia. “Quando sono arrivata in Francia ero precaria, titubante e con una preparazione faraonica ma totalmente teorica”. La differenza con l’Italia è che in Francia tutto è più regolare: “Il lavoro è ben pianificato e tutelato e mi sento inserita in una logica professionale idonea: qui la retribuzione è congrua alle mie responsabilità, l’avanzamento dello stipendio progredisce con l’esperienza e mi è stata data la possibilità di dimostrare le mie capacità lavorative”. Forse anche grazie alla stabilità raggiunta in questi anni in Francia e alle prospettive di una carriera di lungo termine, oggi Chiara e il suo compagno, francese, hanno messo su famiglia. “In Italia – dice – la realizzazione economica e lavorativa era troppo instabile per costruire un progetto di vita. Al mio bambino insegnerò l’amore per le mie origini, la mia terra, la Sicilia, in cui, purtroppo, ritornerò solo per trovare la mia famiglia e far conoscere ai miei figli le sue bellezze naturali”.

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“Ho lasciato l’Argentina per tornare in Italia a insegnare: avevo nostalgia di casa e sono riuscito a rientrare”

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