Mettere al riparo Milano. Impedire che la provincia più popolosa della Lombardia, oltre 3 milioni di abitanti, venga travolta dai contagi e i ricoverati tornino a riempire i reparti, portando di nuovo sull’orlo del collasso le più grandi strutture sanitarie della Regione. Per il Pirellone, le misure restrittive entrate in vigore nelle ultime ore – dalla chiusura di tutte le scuole al divieto di andare a trovare parenti e amici – sono l’ultimo argine prima della zona rossa a una situazione epidemiologica che in alcune aree intorno al capoluogo sta già sfuggendo di mano. Come a Como, Monza Brianza e Brescia, con dati che la Regione definisce già da lockdown. O in comuni confinanti con la città, da Vimodrone (535 casi ogni 100mila abitanti) a Cologno Monzese e Cinisello Balsamo, entrambe oltre 250, fino Bollate (293), Sesto San Giovanni (230) e Cormano (228). Sembra la stessa dinamica della primavera scorsa, quando il Lodigiano e la provincia di Bergamo furono travolte prima di Milano. Ma con una differenza: oggi a fare paura c’è anche la variante inglese, più contagiosa fino al 40% rispetto al ceppo tradizionale e già largamente dominante in tutta la Regione.

Gli effetti negli ospedali si stanno vedendo già, come spiega a Ilfattoquotidiano.it Cristina Mascheroni, anestesista dell’Asst Settelaghi e Presidente della sezione lombarda dell’Associazione anestesisti rianimatori (Aaroi-Emac). “Le terapie intensive sono tornate in affanno. La settimana scorsa l’allarme è stato alzato al livello 3 su 4 e tutti i grossi hub della Regione hanno ricominciato a convertire i posti letto per dedicarli ai pazienti Covid”, dice al telefono. In alcune zone c’è ancora un “margine di posti liberi”, come a Pavia, a Varese e in parte in Alta Valtellina. “Tutto il Bresciano invece è forte difficoltà, così come la Franciacorta. Qui le rianimazioni sono piene e già dal weekend hanno iniziato a trasferire i pazienti in Fiera a Milano”. Una situazione che si sta allargando a macchia d’olio “alla Monza Brianza, al Mantovano, a Cernusco, a Melegnano”. Mascheroni non si è affatto stupita quando ha appreso che nel giro di 24 ore la Regione ha deciso di chiudere tutte le scuole. L’impressione è che si stia cercando di “salvare Milano. Se uniamo la contagiosità della variante britannica al fatto che la popolazione milanese si muove molto per lavoro e c’è un’alta densità abitativa, si capisce benissimo qual è la paura“. Bisogna evitare a tutti i costi, chiarisce, che ci sia “un grosso impatto sulla città”.

D’altronde è stato lo stesso governatore Attilio Fontana ad ammetterlo, spiegando di aver messo tutta la Regione in arancione rafforzato con l’obiettivo, “oltre che di contenere l’incremento di contagi, di preservare le aree non ancora interessate da una elevata incidenza”. Nelle ultime 24 ore il picco di casi è stato accertato proprio a Milano (+1.593, di cui 655 solo in città), con un aumento di oltre il 100% nel giro di due settimane. Ma se si guarda all’incidenza media in 7 giorni ogni 100mila abitanti, il dato più alto è quello di Brescia (527 su 100mila), seguita dalle province di Mantova (306) e Como (301). Complessivamente, stando all’ultimo monitoraggio settimanale dell’Iss, il dato ha superato quota 250 casi ogni 100mila in tutta la Regione. Ed è destinato a salire ancora, tanto che gli esperti parlano di “rischio alto” legato all’incremento di infezioni, al mancato tracciamento dei contatti stretti (all’81%, il livello più basso del Paese) e alla pressione sugli ospedali. I ricoveri aumentano pressoché ovunque, con 4.804 persone in area medica (+17% circa su base settimanale) e 543 in terapia intensiva (+30%). Stando ai dati Agenas, la percentuale di posti letto occupati da pazienti Covid nei reparti è del 43% e in rianimazione del 38%, entrambe oltre le soglie di criticità. Il segnale che la tendenza è in crescita arriva anche dai pronto soccorso: le chiamate al 188 per motivi respiratori o infettivi nell’ultima settimana sono state in media quasi 100 al giorno in Regione. A metà febbraio erano la metà.

Numeri a parte, quello che preoccupa davvero i sanitari è l’abbassamento dell’età media dei ricoverati. A Bologna, come ha raccontato il Fatto.it in un lungo reportage, è un fenomeno che sta diventando sempre più evidente. E così anche in Lombardia. “Stiamo osservando la stessa cosa. Abbiamo un numero molto alto di pazienti tra i 40 e i 60 anni“, racconta la dottoressa Mascheroni. “Proprio ieri un collega mi diceva che in questi giorni ha ricoverato in intensiva pazienti 38enni, 40enni, tutti in buona salute e senza patologie preesistenti che potessero far precipitare il loro quadro clinico”. Il motivo? “Sembra che la variante sia più diffusa tra i giovani e che quindi li colpisca maggiormente“. Non ci sono evidenze di un aumento nella letalità, aggiunge, ma “nei giovani notiamo una difficoltà nello ‘svezzamento’ dal respiratore per chi è stato intubato”. Il decorso in rianimazione può durare “fino a 30-40 giorni se si arriva in situazioni complesse”. Per quanto riguarda adolescenti e bambini, “anche in questo caso i ricoveri sembrano in crescita, anche se non con quadri gravi“.

Per medici, infermieri e operatori sanitari tutto questo vuol dire un carico emotivo, oltre che di lavoro, che si va a sommare a un’esperienza già di per sé devastante. E che nel corso degli ultimi mesi non ha mai concesso pause. “A ottobre, quando sono riesplosi i contagi, avevamo avuto un po’ di tregua grazie all’estate. Ma ora ci troviamo nel pieno della terza ondata con le terapie intensive già affollate di persone che non siamo riusciti a dimettere”, continua la presidente dell’associazione Aaroi-Emac in Lombardia. Il rischio concreto, insomma, è che gli ospedali possano saturarsi prima del tempo. “Siamo sempre più sconfortati e stanchi”, ammette Mascheroni con un filo di voce. “Di fronte alla notizia della chiusura delle scuole, tutti noi ci domandiamo: ‘Perché? Perché siamo ancora qui? Possibile che la gente non abbia ancora capito la gravità della malattia e a distanza di un anno ci troviamo al punto di partenza?”. La dottoressa sa bene che i cittadini sono “stanchi” e forse “meno propensi a seguire le regole”, ma di fronte alla nuova recrudescenza della pandemia è difficile non farsi abbattere. Anche perché, conclude, tra il momento dell’infezione e il ricovero in intensiva “trascorrono in media una ventina di giorni. Siamo solo all’inizio della curva”. Vuol dire che gli effetti dei 5mila contagi quotidiani che si stanno registrando negli ultimi giorni si vedranno solo a fine marzo.

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