Pratiche più lente, uffici aperti a giorni alterni, difficoltà di comunicazione con l’amministrazione. Ma anche didattica a distanza che ha richiesto un enorme sforzo a 900mila docenti di ogni ordine e grado senza peraltro alcuna formazione o preparazione tecnica. Ad un anno di distanza dal lockdown, il bilancio sul lavoro agile “emergenziale” nella pa è in chiaroscuro. Con appena il 33% delle amministrazioni statali (54 su 162) che ha approvato il Piano operativo del lavoro agile con precisi obiettivi da realizzare su un dato arco temporale. Sono in ritardo persino i ministeri con 5 Pola depositati su un totale di 14, le università (26 su 67), gli enti di ricerca vigilati dal ministero dell’università (3 su sei). Dati che testimoniano come la trasformazione del modo di lavorare, in maniera più efficace e per obiettivi, è ancora tutta da realizzare. Di questo dovrà tener conto la commissione tecnica dell’Osservatorio nazionale del lavoro agile, istituita presso la Presidenza del consiglio, che si riunirà per la prima volta mercoledì 3 marzo sotto la presidenza di Antonio Naddeo.

In certi casi (didattica esclusa), a parità di busta paga, il lavoro a distanza ha incrementato problemi ed inefficienze. E’ accaduto ad esempio al comune di Roma che si prepara a rivedere la modalità di lavoro agile definendo procedure ed obiettivi da raggiungere attraverso il Pola. Ma anche a Napoli dove, come denunciato in consiglio comunale, un ufficiale della polizia municipale perfettamente idoneo a svolgere il suo incarico ha sfruttato lo smartworking per sfuggire alle responsabilità e “proteggersi” dal Covid. E ha trasformato così il lavoro da remoto in una “villeggiatura per i dipendenti pubblici”, come aveva detto l’economista Renato Brunetta, oggi ministro della pubblica amministrazione nel governo di Mario Draghi.

Di certo i numeri del fenomeno sono impressionanti. Secondo l’Osservatorio smartworking del Politecnico di Milano, in emergenza, il 94% delle pubbliche amministrazioni, il 97% delle grandi aziende e il 58% delle piccole e medie imprese ha permesso ai dipendenti di lavorare da remoto, cioè lontano dal tradizionale ufficio. “Il numero di lavoratori che svolgono le attività da remoto per una parte significativa del loro tempo è improvvisamente passato a una cifra di circa 6,58 milioni, più o meno un terzo dei lavoratori dipendenti. Tale numero include i dipendenti di diverse tipologie di imprese: si stimano circa 1,85 milioni in ambito pubblico, 2,11 milioni nelle grandi imprese, 1,13 milioni nelle piccole e medie e 1,5 milioni nelle microimprese”, si legge nel report Lo smartworking ai tempi del Covid-19: come cambia il lavoro dopo l’emergenza che ha analizzato la trasformazione nel mercato del lavoro nel 2020. “Nella PA il tema dell’adeguatezza della dotazione tecnologica è stato maggiormente sentito. Il 42% degli enti ha introdotto iniziative di ampliamento della dotazione hardware e il 49% della dotazione di software” prosegue lo studio. Per i lavoratori non sono mancate difficoltà di ogni genere. Ad iniziare dalla gestione degli spazi di lavoro per finire alla separazione della vita personale da quella d’ufficio. Ma ci sono stati anche molti elementi positivi come “il miglioramento delle competenze digitali delle persone (71%), il superamento di pregiudizi legati all’introduzione dello smart working (65%), il ripensamento dei processi aziendali (59%) e la consapevolezza della reattività al cambiamento della propria organizzazione (60%)” chiarisce lo studio che sottolinea come, superato il picco di lavoratori da remoto raggiunto a marzo 2020, a settembre, fossero ancora in lavoro da remoto, almeno in parte, circa 5,06 milioni di lavoratori.

“L’emergenza sanitaria ha creato le condizioni per diffondere sia nelle imprese che nell’amministrazione il lavoro a distanza – spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio smartworking del Politecnico di Milano – Il lavoro da remoto è diventato una realtà per milioni di dipendenti, ma non si è trattato di smartworking, ovvero di una riorganizzazione del modello di lavoro che diventa un’attività volontaria e definita, per un dato numero di giorni a settimana, assieme al datore di lavoro con obiettivi precisi da realizzare su un dato arco temporale”. In pratica, milioni di lavoratori hanno sperimentato solo lo smartworking “emergenziale”, lontano anni luce dal vero lavoro agile, soprattutto nel pubblico dove, durante l’emergenza sanitaria, nella migliore delle ipotesi, i dipendenti hanno fatto di necessità virtù utilizzando pc e connessioni proprie e improvvisando una trasformazione complessa della propria attività lavorativa.

Se questo è fin qui lo stato dell’arte, che cosa c’è da attendersi a questo punto della storia? Un cambiamento di mentalità che consenta la diffusione reale dello smartworking dando più autonomia ai lavoratori che potranno lavorare per alcuni giorni a settimana lontano dall’ufficio per il raggiungimento di precisi target. Gli strumenti, del resto, ormai ci sono. Nel settore pubblico, il Piano Organizzativo del Lavoro Agile dovrà consentire il lavoro da remoto ad almeno il 60% dei dipendenti. E, nel caso in cui gli enti non abbiano adottato il piano, saranno comunque tenuti a garantire questa opzione ad almeno il 30% dei lavoratori che lo richiedano. Sperando che le amministrazioni siano più efficaci sul fronte programmazione, nonché della definizione di obiettivi e controlli.

Per quanto concerne le aziende private, invece, lo smartworking sta continuando a crescere perché la sperimentazione massiccia in emergenza ha fatto emergere i vantaggi di questa modalità di lavoro. Ma il punto centrale, come evidenzia l’Osservatorio, è che oggi siamo di fronte all’ “opportunità storica di dare una scossa positiva alla cultura del lavoro proprio in un momento in cui il Paese ne ha immenso bisogno”. Lo smartworking è infatti destinato a cambiare servizi, città e territori. Proprio per questo, secondo gli esperti, “la consapevolezza della necessità di accompagnare questi cambiamenti deve informare l’azione politica, ma non certo portare a cercare di fermarli”. Non sono poche infatti importanti le forza contrarie al cambiamento. Soprattutto nella pubblica amministrazione dove il sindacato è già in allerta in vista di un rinnovo del contratto atteso ormai da diversi anni.

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