Dove trovo i soldi per finanziare i miei investimenti? È la domanda più ricorrente tra gli imprenditori del nostro paese; una domanda che oggi assume nell’immaginario collettivo una connotazione di disperazione visto che le fonti classiche, il patrimonio familiare e il credito bancario, si sono prosciugate o comunque sensibilmente ridimensionate. Ma è anche una domanda che si fanno in pochi! Non meravigliatevi perché la spiegazione sta tutta nella finalità di quella richiesta: investimenti.

Come ho già sostenuto su queste colonne, infatti, nel nostro Paese la finalità della destinazione dei finanziamenti, come si dice in “banchese”, non è lo sviluppo ma, nel 75% circa dei casi, la sopravvivenza. Qui invece parliamo di crescita del valore dell’impresa attraverso l’utilizzo di quelle somme di danaro. E quei pochi che si pongono quella domanda a breve si ritroveranno un mercato di opportunità in uno strumento che, nei prossimi 12-18 mesi, potrà avere uno sviluppo molto sostenuto. Saranno pochi anche perché riguarderà imprese di medie dimensioni e non, come la narrazione corrente vuole far credere, le micro e le piccole imprese.

Sto parlando delle Spac, acronimo per Special Purpose Acquisition Company, ovvero sostanzialmente delle scatole piene solo di denaro ma “vuote” per il resto: non ci sono bilanci, né altra informazione finanziaria per società non operative in partenza. Le Spac, quindi, vengono progettate da un gruppo di promotori, che possono essere persone fisiche e/o giuridiche, i quali – aspetto, questo, molto rilevante – investono denaro proprio e cercano poi il grosso dei capitali presso investitori professionali o istituzionali. Sono quotate su un mercato, regolamentato oppure no (come per esempio l’Aim Italia, che è organizzato da Borsa Italiana, ma non vigilato da Consob), con l’obiettivo di individuare una società target non quotata nella quale investire, in minoranza o maggioranza.

Vi starete chiedendo: ma come può essere quotata una società senza bilanci? Perché le Spac sono società nate per essere quotate e, quindi, non potendo esibire i bilanci certificati, sono sottoposte alla disciplina del “lock-in” (una sorta di assicurazione per gli investitori circa l’impegno dei promotori). In altri termini il loro vero obiettivo è portare in Borsa questa società target dell’investimento e, quindi, si parla di “business combination”, cioè di integrazione delle due società, con la target che si fonde nella Spac e che dunque si ritrova in automatico quotata. Il suo fine dovrà essere realizzato entro un breve periodo di tempo (solitamente da 24 a 36 mesi) e, nel caso non riesca a perfezionare un’acquisizione entro un arco temporale definito, dovrà essere liquidata.

Laddove invece la combination si realizza, di solito la Spac cambia nome in quello della società acquisita e diventa operativa. Insomma, si tratta di ingegneria finanziaria con un risvolto molto pratico, perché sono strutture in grado di convogliare denaro fresco sull’economia reale, denaro che appartiene a investitori professionali o istituzionali. In particolare, ultimamente hanno attratto le attenzioni dei tanto contestati (per le modalità di vendita) Pir, i Piani individuali di risparmio, alla ricerca di un impiego che giustifichi la loro classificazione di investitori di lungo periodo nell’economia reale, senza per questo rinunciare alla liquidità del loro investimento.

Le dimensioni sono ancora limitate: secondo le ultime stime, in totale le Spac dedicate al mercato italiano hanno raccolto a oggi poco meno di 3,7 miliardi di euro dal 2011, cioè da quando per prima è stata quotata al segmento Miv di Piazza Affari la Spac di diritto lussemburghese “Italy 1 Investments”. In totale queste Spac hanno investito sinora 1,3 miliardi di euro in 12 aziende che sono oggi quotate a Piazza Affari, mentre ci sono ancora oltre 2,4 miliardi di euro da investire. Da inizio 2011, sono stati una trentina i veicoli di investimento costituiti con l’obiettivo di raccogliere capitali dagli investitori, individuare un possibile target di investimento e poi portarlo in quotazione in borsa.

Ma, come dicevamo, il mercato si sta espanendo. Anche l’ormai ex Ceo di Unicredit, Jean Pierre Mustier, è infatti in procinto di lanciare uno “special purpose acquisition vehicle”. Pegasus, questo il suo nome, sarà avviata da quattro promotori di grande sostanza. Oltre a Mustier, il più rinomato è Bernard Arnault, industriale e finanziere francese, fondatore del colosso Lvmh, affiancato da un altro nome di peso del mondo della finanza parigina, ovvero la società di investimento Tikehau Capital (gruppo di asset management e investimenti globale dove lo stesso Mustier aveva lavorato come partner prima di entrare in UniCredit nel 2016) e da Diego de Giorgi, ex Bofa Merrill Lynch, al momento consigliere di Unicredit, che avrà, insieme a Mustier, un ruolo operativo. La Spac sarà quotata ad Amsterdam e i quattro partner investiranno almeno il 10% della raccolta iniziale.

Fondamentalmente quello delle Spac è un lavoro da ex manager e banchieri. Ma oggi sta attraendo sempre più gli investitori istituzionali sia nella veste di promotori sia nella veste di investitori. “Cosa ci guadagnano?”, è la domanda che tutti si pongono quando nell’affare c’è il mondo della finanza. Essere promotori dell’iniziativa paga bene, perché alla business combination le azioni speciali della Spac in capo a loro vengono convertite in azioni ordinarie della nuova società quotata a un concambio vantaggioso. E lo stesso accadrà ogni volta che il prezzo delle azioni raggiungerà un certo prezzo e lo manterrà per un periodo prefissato.

Il risultato? L’imprenditore fa meno fatica a quotarsi rispetto a un’ipotesi tradizionale di Ipo (dall’inglese “Initial public offering”, un’offerta al pubblico dei titoli di una società che intende quotarsi per la prima volta su un mercato regolamentato) e soprattutto non si deve preoccupare di scossoni improvvisi di mercato. Ma deve essere pronto a diluirsi (cedere la sua quota di partecipazione nell’azienda): in altri termini l’imprenditore si troverà con una quota leggermente inferiore del capitale di un’azienda la cui capitalizzazione di mercato nel frattempo sarà però aumentata e quindi di un’azienda che varrà di più, senza il rischio di aver pagato inutilmente alti costi di quotazione. Il che significa che il costo della diluizione, che non è un costo monetario, si manifesta soltanto se il valore dell’azienda aumenta.

Quindi, a fronte di tale diluizione, l’imprenditore si ritroverà comunque una partecipazione nella propria azienda che varrà di più. Ma le banche ci hanno fatto almeno un pensiero?

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