Le attuali politiche di welfare, in nome degli equilibri di bilancio pubblico, stanno andando nella direzione di una graduale privatizzazione dei servizi sociali e di una progressiva imposizione della logica di mercato. Due sono le direttive principali per raggiungere tali obiettivi: l’abbandono del principio di universalità d’accesso, sostituito da processi di selezione sempre più restrittivi, e la finanziarizzazione dello stato sociale.

Queste tendenze sono sinergiche e si rinforzano a vicenda: più l’accesso alle prestazioni sociali dipende dalla disposizione individuale a diventare “imprenditore di se stessi”, più i “richiedenti” sono sottoposti a un processo di selezione basato sulla loro disponibilità a investire sui mercati finanziarizzati dei servizi sociali.

Che lo stato sociale sia oggi una vera e propria modalità di produzione è confermato dallo sviluppo di forme spurie di “assistenza” privata. E nell’ultimo decennio questa offerta di servizi privati ha sempre più usufruito delle modalità di organizzazione delle piattaforme. L’aspetto tecnologico e quello sociale sono quindi due caratteristiche della “piattaforma produttiva contemporanea”, unite dalla prevalenza in molte attività di un rapporto diretto tra utente e produttore. Se consideriamo questa dinamica alla luce della crisi del welfare state classico e la correliamo alla scoperta di una nuova vocazione produttiva del welfare, inizia a prendere forma una futura tendenza, e cioè un mix di “sharing welfare” e “work-fare”.

Un primo elemento da rilevare è l’evoluzione di un welfare parallelo di sussidiarietà, basato sempre più sul lavoro non retribuito o sul volontariato; un secondo elemento è la nuova gestione pubblica dei servizi, fondata su criteri neoliberisti. I settori del welfare si presentano sempre più come un ambito in cui le industrie dei Big Data possono trovare sconfinate praterie di redditività, dove il lavoro è sempre più erogato in modo gratuito.

Contrariamente all’idea che l’automazione algoritmica profetizzi la fine del lavoro, la crisi dell’occupazione fordista è lontana dall’essere una crisi del lavoro come fonte di valore di scambio o di produzione di ricchezza. Al contrario, il capitalismo bio-cognitivo in generale e l’economia delle piattaforme in particolare non sono soltanto un’economia intensiva nell’uso della conoscenza e delle relazioni sociali, ma anche un’economia labour intensive.

Per quanto riguarda l’economia delle piattaforme, assistiamo a due tendenze. La prima riguarda i lavoratori: lo sviluppo congiunto della rivoluzione digitale e della dimensione relazionale-cognitiva del lavoro ha profondamente destabilizzato l’unità di tempo e di luogo della prestazione lavorativa. Al contempo, le attività che creano valore e ricchezza assumono nuove forme che gli standard tradizionali di rappresentazione non riescono a identificare e a misurare (spesso privandole di qualsiasi forma di riconoscimento economico e sociale).

Un altro elemento che segna questa ibridazione tra tempo libero e tempo di lavoro riguarda il modo in cui le imprese integrano il lavoro gratuito dei consumatori e degli utenti. Con “Free Digital Labour” si intende il lavoro libero che una moltitudine di individui svolge attraverso e su Internet, spesso inconsapevolmente, a beneficio dei grandi oligopoli e delle industrie dei Big Data. Estendendo un adagio riferito al pubblico televisivo, si potrebbe riassumere che “se è gratis, è perché in realtà tu sei non solo il prodotto, ma anche il lavoratore che, attraverso la sua attività apparentemente libera e ludica, permette di produrre e di essere venduto come merce”.

Nella misura in cui questo valore non viene “redistribuito” agli utenti, possiamo considerare tale attività come sfruttamento. Questo spiega perché imprese come Google e Facebook occupino oggi i primi posti del capitalismo mondiale per capitalizzazione di borsa e redditività, pur impiegando un numero quasi insignificante di dipendenti.

In questo contesto si comprende la necessità di un reddito di base universale e incondizionato (Universal Basic Income, Ubi), inteso non come una forma di assistenza (l’attuale Reddito di cittadinanza in Italia, la Revenu de solidarité active in Francia e altre simili misure europee), ma pensato e istituito come un reddito primario, legato cioè a un contributo sociale produttivo oggi non remunerato e non riconosciuto, soprattutto all’interno del capitalismo delle piattaforme: l’Ubi rappresenta il riconoscimento di quel vivere produttivo che non è certificato negli attuali rapporti di lavoro. In quanto strumento di remunerazione deve avere un valore adeguato, ed essere negoziato dalle parti sociali.

La nuova realtà richiede nuove categorie d’interpretazione e, di conseguenza, l’utilizzo di nuovi strumenti politici. Da questo punto di vista, il reddito di base deve essere individuale, concesso ai residenti (e non solo ai cittadini legalmente riconosciuti) e, per il ragionamento che ci ha condotti fin qui, restare totalmente incondizionato. L’obiettivo politico in questa fase è quindi un allargamento dell’attuale reddito di cittadinanza nella direzione auspicata.

Articolo Precedente

Il Tar ferma la vendita di azioni Aeb del Comune di Seregno: lo shopping di A2A su un altro binario morto

next
Articolo Successivo

Cosa sono le ‘Spac’ e perché saranno il futuro delle medie imprese

next