Un sostegno pubblico alle aziende sempre corposo ma più mirato, perché “l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre” e le risorse dei contribuenti non vanno usate per finanziare attività “zombie“. Un occhio di riguardo per le pmi, che creano occupazione nelle zone in cui non ci sono grandi imprese. Misure per aiutare i lavoratori che perdono il posto a cambiare azienda e anche settore, se necessario. E la capacità di immaginare uno scenario economico diverso da quello pre Covid, perché la crisi ha accelerato alcune tendenze, come la digitalizzazione, e non tutto tornerà come prima: molti comparti dovranno adattarsi e in alcuni casi nuove imprese sostituiranno quelle che non sono in grado di reggere. Dopo aver suggerito, nell’intervento comparso a marzo sul Financial Times, come traghettare le economie oltre la fase acuta della pandemia, Mario Draghi nei mesi successivi ha anche dettagliato la ricetta per uscirne. Ora che l’ex banchiere centrale ha accettato con riserva l’incarico di formare un governo istituzionale, le proposte che ha avanzato hanno i contorni della bozza di un programma di governo.

I primi passi: assorbire le perdite dei privati e proteggere il lavoro – La svolta Dall’inizio di marzo 2020 l’epidemia dilaga in Italia e poi nel resto d’Europa. A fine mese, mentre ferve la discussione sugli Eurobond con la Germania ancora schierata tra i contrari, arriva l’articolo sul Financial Times. L’ex banchiere centrale che ha sempre fatto pressione sui Paesi “deboli” dell’Eurozona perché riducessero il debito riconosce che “di fronte all’imprevedibilità delle circostanze è necessario un cambiamento di mentalità, come in tempo di guerra“. Con le economie in lockdown l’obiettivo del pareggio di bilancio non può più essere la stella polare, anzi i bilanci pubblici diventano strumento indispensabile per assorbire le perdite del settore privato e “proteggere le persone dalla perdita del lavoro” oltre a garantire loro “un reddito minimo“. Ma quelli sono i primi passi per traghettare l’economia oltre la fase acuta della crisi.

Sì al debito “produttivo”: primo investimento nel capitale umano – Ora, per progettare la ripresa, la rete di protezione fornita dal debito pubblico resta indispensabile. A patto però che sia debito “buono“, cioè utilizzato a fini produttivi come “investimenti nel capitale umano, infrastrutture cruciali per la produzione, ricerca“. Questa (e non i bassi tassi di interesse) è l’unica garanzia che rimanga sostenibile nel tempo. L’investimento nei giovani è il primo punto, ha spiegato Draghi in agosto intervenendo al Meeting di Rimini, perché l’indebitamento creato durante la pandemia, compreso quello europeo per finanziare il fondo chiamato non a caso Next generation Eu, “dovrà essere ripagato principalmente da loro” ed è “nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo. I sussidi finiranno e se nel frattempo non si è fatto niente resterà la mancanza di qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuro”. Non a caso l’ex presidente Bce nel breve discorso di accettazione dell’incarico dopo l’incontro con Mattarella ha citato “il futuro delle giovani generazioni”, oltre al “rafforzamento della coesione sociale”, tra le cose da fare con le risorse europee del Recovery fund.

Il darwinismo applicato alle aziende – A metà dicembre arriva poi il rapporto Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid del Gruppo dei Trenta, un’organizzazione internazionale indipendente di finanzieri e accademici. Draghi, insieme all’ex numero uno della banca centrale indiana Raghuram Rajan, guida il comitato che studia come ristrutturare le aziende dopo il Covid. Le raccomandazioni finali sono un’agenda politica. Il principio base è che occorre agire rapidamente per evitare che la crisi sfoci in un’ondata di insolvenze e aziende zombie, cioè non in grado di coprire i propri costi se non a debito: vorrebbe dire precipitare l’economia nella stagnazione danneggiando lavoratori e famiglie. Quindi il supporto pubblico, scrive il G30, va “mirato attentamente” per ottimizzare l’uso delle risorse. Vuol dire che qualcuno deve essere lasciato indietro? La tesi apparentemente “darwinista” è proprio questa, perché con “un supporto indiscriminato” c’è il rischio di imporre un peso eccessivo sui contribuenti.

Ma vanno favorite “distruzione creatrice” e riqualificazione dei lavoratori – Quindi “non tutte le imprese in crisi dovrebbero ricevere supporto pubblico” e le risorse “non dovrebbero essere sprecate per aziende destinate al fallimento o che non hanno bisogno di supporto pubblico”. Ma i governi, si avverte, dovrebbero comunque intervenire per favorire la “distruzione creatrice”, cioè l’apertura di nuove aziende al posto di quelle che chiudono oltre che lo spostamento dei lavoratori “tra compagnie e settori, con un’adeguata formazione e assistenza nella transizione“. In parallelo si consiglia di non “assegnare colpe e negare supporto” alle aziende che siano arrivate alla pandemia già piene di debiti e sperino ora nel salvataggio pubblico con quello che gli economisti definiscono azzardo morale, ovvero appunto la scommessa che non dovrai pagare il conto dei rischi eccessivi che hai corso perché lo Stato interverrà a salvarti. Al primo posto dev’essere messo “il bene della società nel suo insieme“, scrive il G30, quindi non è il caso di indebolire le misure di sostegno necessarie a tutti per “punire” qualcuno.

Il ruolo dello Stato per aiutare le pmi – Infine, per quanto il documento cofirmato da Draghi inviti a lasciar lavorare le forze del mercato, in caso di fallimenti della “mano invisibile” l’intervento dello Stato viene auspicato: per esempio per finanziare le piccole e medie imprese, che “in molti settori e Paesi” sono “sull’orlo del precipizio in termini di solvibilità” e non vanno lasciate al loro destino affidandosi solo agli ammortizzatori sociali per mitigare le conseguenze delle chiusure. Le pmi, si legge nel capitolo dedicato, sono cruciali per diverse ragioni, tra cui il contributo all’occupazione e la distribuzione geografica molto diversa da quella delle grandi imprese, per cui gli eventuali disoccupati in molti casi hanno scarse possibilità di lavoro alternative nella stessa zona. Una descrizione che sembra ritagliata sull’Italia, così come la considerazione che la precede: “Le grandi aziende possono avere più successo nel farsi sentire dai governanti e i loro problemi possono suscitare maggiore preoccupazione pubblica e politica: le compagnie aeree di bandiera sono un caso esemplare. Ma ci sono buone ragioni per cui i politici dovrebbero essere attenti al destino delle imprese piccole e medie”.

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