di Matteo Silvestrini

“Non ne possiamo più della dittatura del politically correct“, si sente spesso dire quando alcuni personaggi protestano in nome della difesa della parità di genere o per denunciare personaggi o opere del passato, portatori di elementi discriminatori verso questa o quella minorità, oggi protetta. È vero che ogni tanto la denuncia di elementi discriminatori, presenti ancora oggi, sfocia in alcuni deliziosi paradossi oppure in estremismi talvolta al limite del ridicolo. Noto però che la frase citata in apertura serve troppo sovente da grimaldello per intavolare discorsi reazionari.

Questi ultimi si appoggiano sui paradossi derivati dal conflitto permanente tra la difesa della libertà di parola e di espressione e la difesa delle minoranze presenti nella società. Per esempio, è ampiamente riconosciuta una libertà di espressione pressoché assoluta alla satira, anche se questa dovesse insultare minoranze religiose, tipo l’Islam – vedi il caso “Charlie Hebdo” – o anche quelle maggioritarie come il cristianesimo, i cui rappresentanti fondamentalisti accusano di cristianofobia i media “mainstream”. Mentre è altresì ammesso che i propositi razzisti, xenofobi o omofobi debbano essere sanzionati, privilegiando la difesa delle categorie colpite da possibile discriminazione.

Ero giovane negli anni ’90 e primi anni 2000 e all’epoca, almeno in Italia e almeno in Veneto, era estremamente politically incorrect sostenere i Dico, essere femministi ad oltranza e a favore di leggi anti-discriminazione. Ci battevamo spesso contro il politically correct dell’epoca, cioè contro il conformismo piccolo borghese dell’italietta provinciale, cattolica e conservatrice. Di colpo, mi ritrovo a sostenere idee che fanno parte del politically correct dell’epoca contemporanea… E quelli che combattevo all’epoca, accusandoli di conformismo, oggi mi combattono, accusandomi essi stessi di conformismo.

Mi chiedo quindi se non si debbano distinguere due “politically correct”. Il primo sarebbe il politically correct dal punto di vista del concetto, il “politically correct in sé”. Il secondo è il politically correct che ha un contenuto ben preciso, il “politically correct contingente”. Il dilemma è quindi se combattere sempre e comunque il conformismo di una data epoca, in nome della libertà di espressione, oppure combattere le idee che riteniamo ingiuste, fossero anche difese da una sparuta minoranza.

Scelgo sempre il politically incorrect, oppure i valori che reputo importanti anche quando fanno parte del politically correct? Di fronte all’avanzare della civilizzazione, dei suoi valori inclusivi, del rispetto per tutti gli individui, la loro valorizzazione qualsiasi sia il loro genere biologico, la loro identità di genere o il loro orientamento sessuale, la loro etnia o religione, mi sento di difendere le posizioni progressiste che sono sempre state le mie. Sapendo, tra l’altro, che la mia posizione inclusiva non è nociva per nessuno, se non per quelli che vogliono escludere. Io difendo tutti, tranne quelli che vogliono solo difendere se stessi e quelli che sono esclusivisti come loro.

E’ un leggero paradosso da assumere e che fa della lotta per l’attuale contenuto del politically correct una lotta etica che discrimina tra portatori di valori radicalmente diversi. Allora sì, io difenderò sempre “questo” politically correct, anche perché non sono io che salgo sul carro del vincitore, è semmai il vincitore che è salito sul mio carro. E ne sono felice!

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