Nelle indagini sulla morte di David Rossi, pur “caratterizzate da alcune carenze”, non si riscontrano “gli elementi costitutivi del reato” di abuso d’ufficio, “né, tanto meno, il dolo intenzionale” richiesto dal codice. Lo scrive il giudice per le indagini preliminari di Genova, Franca Borzone, motivando l’archiviazione del procedimento per abuso d’ufficio e favoreggiamento della prostituzione aperto dopo le rivelazioni alle Iene dell’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini. Il quale, ricorda l’ordinanza, “aveva riferito di una storia parallela, mai emersa”, in cui erano coinvolti vari soggetti, compresi “i magistrati senesi”, che avevano partecipato a “festini a base di cocaina”, ragion per cui le ombre sul decesso del capo della comunicazione del Monte dei Paschi – trovato morto il 6 marzo 2013 ai piedi della finestra del suo ufficio, nel pieno dello scandalo finanziario che investiva la banca – “non sarebbero state intenzionalmente approfondite proprio al fine di evitare lo scandalo nei confronti dei magistrati e di altre personalità di rilievo nazionale”. Dopo due anni di indagini, la procura del capoluogo ligure – competente per il coinvolgimento di magistrati toscani – aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo, trasmettendo però gli atti al Consiglio superiore della magistratura per la valutazione di eventuali profili disciplinari nel comportamento dei colleghi.

I fazzoletti distrutti e mai analizzati – Alla richiesta di archiviazione si era opposta la vedova di Rossi, Antonella Tognazzi, sostenendo che la prima indagine sul caso fosse stata “lacunosa e caratterizzata da atti illegittimi”: a partire dalla confisca e distruzione dei sette fazzoletti di carta “imbrattati di presunta sostanza ematica” sequestrati presso l’ufficio di Rossi nel corso delle indagini e mai analizzati. Un provvedimento, scrive il gip, “errato nella forma e prematuro nella sostanza”, che tuttavia “può trovare alternativa lettura, sia sotto forma di imperizia che di presuntuosa convinzione d’una tesi, pure superficiale, ma non univocamente rivelatrice della precisa volontà di non indagare su elementi di rilievo”. La scelta di distruggere quei possibili elementi di prova, pertanto, va considerata discrezionale e – almeno in questa sede – insindacabile: “I sistemi di controllo sulla funzionalità delle indagini preliminari – si legge – debbono essere rintracciati altrove, ovvero nelle verifiche giurisdizionali previste dalla legge e, segnatamente, in quelle del giudice delle indagini preliminari, che, nella specie, ha accolto la richiesta di archiviazione” della prima indagine “motivando in modo esaustivo. In tal senso non può assumere rilievo dirimente il provvedimento di confisca e distruzione dei famosi fazzoletti adottato dal pm”.

Il presunto suicidio – Sul reato ipotizzato fin da subito dalla Procura senese – l’istigazione al suicidio – l’ordinanza osserva che “il luogo in cui il corpo giaceva, la finestra spalancata dell’ufficio, le lettere di addio rinvenute accartocciate nel cestino della stanza, l’assenza di segni di colluttazione, l’ispezione medico legale, costituivano spunti per ben ipotizzare, in quel preciso momento, un evento suicidario, intorno al quale, tuttavia, appariva necessario verificare ipotesi di istigazione”. Pertanto “nulla può obiettarsi in ordine all’originaria iscrizione, tenuto conto di quanto, in quel momento, si presentava agli inquirenti” e a maggior ragione perché “le persone successivamente sentite, familiari inclusi, avevano riferito dello stato di preoccupazione e malessere psicologico in cui il familiare versava, di gesti autolesivi ai polsi dei giorni antecedenti, verosimilmente rinnovati prima dell’evento”. E anche le “ulteriori carenze” evidenziate nell’atto di opposizione, “per quanto parzialmente condivise dal pm, non possono essere ritenute dirimenti” per ipotizzare una volontà dei magistrati di insabbiare il caso. Tanto più che “nulla è emerso circa indebite remunerazioni, o promesse di esse, in qualche modo ricollegabili alla vicenda giudiziaria, nell’ipotesi che le indagini fossero state condizionate da terzi con prospettive remuneratorie”. Inoltre, l’eventuale abuso d’ufficio sarebbe prescritto dall’agosto 2019, perché il momento consumativo del reato coinciderebbe con la richiesta d’archiviazione dei pm di Siena, datata agosto 2013.

I festini frequentati dai pm – Dalla prescrizione deriva anche “l’impossibilità di svolgere ulteriori indagini finalizzate a verificare la partecipazione dei due magistrati ai “festini”, ovvero ad avere conferma delle tendenze sessuali di uno di essi”, indagini definite comunque “superflue alla stregua delle considerazioni sviluppate”. L’escort che primo raccontò delle serate a base di sesso e cocaina frequentate dalle toghe – da cui l’ipotesi di favoreggiamento della prostituzione – “ha reso dichiarazioni sufficientemente precise ed ha proceduto, nel corso del suo esame, ad individuazioni fotografiche con esito positivo”, il che consente “di formulare un primo vaglio positivo di attendibilità”. Tuttavia, scrive il gip, nessun elemento consente di “ipotizzare e, men che meno, di ritenere che i magistrati, quand’anche avessero partecipato ad alcuno dei “festini”, ne fossero stati, al contempo, gli organizzatori, sia in termini di iniziativa, che di procacciamento di “escort”, ovvero di altre modalità di intrattenimento”. In conclusione, “l’organizzazione dei “festini”, dev’essere indagata altrove, per mancanza di elementi circa la commissione del fatto da parte di magistrati”. E perciò il fascicolo è ritrasmesso alla procura di Siena, che dovrà valutare le dichiarazioni rese del secondo testimone, ritenuto meno attendibile. Il tutto, però – precisa il gip – “a prescindere da potenziali censure disciplinari nei soli confronti di due dei magistrati, ravvisabili ove nei fatti esposti venga rilevato un pregiudizio per il prestigio della magistratura: ragione, questa, per la quale l’ufficio di Procura aveva immediatamente trasmesso gli atti al Csm e per la quale anche questo giudice, pertanto, è tenuto a provvedervi”.

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