Per tanti il pallone è un oggetto divertente, per qualcuno un amico, per pochi in grado di accarezzarlo nella maniera giusta un amante, per altri addirittura un sogno: da inseguire, prendere per poco e poi inseguire di nuovo. Figurarsi poi quando compare davanti a pochi metri dalla porta, quasi per caso, quando sei in svantaggio perché “Pennellone” Silenzi poco prima ci aveva messo il suo metro e novanta portando avanti il Torino: e allora con la porta vuota vai di sinistro e pareggi, facile facile, per una volta. Per una volta, per l’ultima volta in carriera, 27 anni fa, in Atalanta-Torino 2-2, anche se lui non lo sa.

Lui è Maurizio Codispoti, mestiere terzino, forse tra gli esempi più plastici della bellezza del calcio, quello vero, quello operaio, quello puro, nella storia del calcio italiano. Di quelli che gli allenatori dovrebbero raccontare ai ragazzi. Calabrese, testa dura e piede mancino, Maurizio: avete presente quei mancini che mettono la palla dove vogliono, che tirano le punizioni e i calci d’angolo, che quando crossano mettono la palla sulla testa del centravanti 7-8 volte su dieci? Ecco tutto ciò che non è Codispoti. Insomma, quando Alessandro Baricco in City ha descritto il terzino sinistro, quello che a furia di contrastare l’avversario diretto, l’ala destra, ne assorbe il brio e la vocazione al dribbling e alla finezza, non pensava probabilmente a Codispoti.

Eppure parliamo di un unicum, di una dotazione straordinaria, superiore a qualsiasi altro collega di categoria ben più dotato: “Maurizio è l’unico terzino al mondo capace di auto lanciarsi”, parola di Zdenek Zeman. E chi ricorda Zemanlandia, il Foggia di Pasquale Casillo, e non solo di quel tridente magnifico Signori-Rambaudi-Baiano o Igor Kolyvanov, sa che Zeman aveva ragione. Calabrese, testa dura Maurizio: è mancino, ma ha un mancino da stopper più che da terzino e proprio per questo è consapevole che da quando comincia a calcare i campi nella sua terra, con la Vibonese, sa che dovrà correre, e lui corre, corre più di tutti.

E correndo arriva fino a Siracusa, in C2, affrontando in un bel derby di Coppa Italia, nel 1986, una squadra di categoria superiore: il Licata. La squadra di Maurizio vince e passa il turno ma l’allenatore avversario lo nota e lo chiama quando qualche mese dopo va ad allenare il Foggia. E così Codispoti si ritrova alla corte di Zeman e di Casillo. Maurizio si piazza su quella fascia e fa quel che sa fare: corre. E butta il pallone in avanti correndo più dei suoi avversari per riprenderlo, si auto lancia: il pallone è un sogno, Maurizio lo insegue, e quando lo riprende spesso sbaglia il cross. Tanto che il presidente del Foggia dei miracoli gli infila una banconota da 100mila lire nella scarpetta sinistra, immaginando che ciò potesse contribuire ad aggiustare la mira.

I cross magari continueranno ad essere così così, ma Codispoti il campo se lo mangia e sa che deve mangiarselo sempre di più per stare in quel Foggia che dalla C arriva fino in serie A, col patron che mira in alto e assicura nella sua lingua: “Aggia fa a squadra cchiù forte d’o Milàn”. E in A parte col botto quel terzino che si auto lancia e sorprende gli avversari: 2 gol in quattro partite a settembre 1991. E quando lo intervistano dopo il secondo ai giornalisti che gli chiedono cosa gli abbia detto Zeman della sua grandissima partenza lui risponde candidamente: “Mi ha detto che sono buono per l’Interregionale”.

In realtà attira su di sé l’attenzione delle grandi, come tutti i protagonisti di Zemanlandia: ci pensa l’Inter nel 1992, ma alla fine va all’Atalanta di Marcello Lippi per sostituire Luigino Pasciullo. Le due stagioni in nerazzurro non sono granché: segna solo quel gol al Toro e non sempre è titolare. Passa alla Spal e poi al Cesena, finché nel 1996 chiude la carriera di calciatore ed inizia ad allenare. È la storia del calcio nella sua applicazione più pura, Codispoti: tiro un pallone e gli corro dietro, semplicemente. E se gli altri sono più forti? Io corro di più.

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