Era il 20 luglio 2001. Un’intera generazione aveva coltivato l’idea pacifica e pacifista del cambiamento politico. Apartitico, extra ideologico ma intriso di ideali. Quella generazione, trasversale, fu attaccata a Genova. Indubbiamente cadde nella trappola ma fu attaccata. E lui, un ragazzo di 23 anni, fu assassinato davanti alle telecamere del mondo. Fu assassinato, il suo corpo fu vilipeso, servitori dello Stato passarono sopra il suo cadavere più volte, qualcuno alterò il suo corpo e da subito qualcuno narrò un’altra verità tossica sulla sua morte. Una verità tossica dove a uccidere Carlo fu un sasso poi trovato vicino al suo cadavere.

Questi esperti di narrazione tossica erano al lavoro a Genova. E io ne rimasi scioccato. Quel 20 luglio 2001 morì la fiducia nel contratto sociale. Morì l’idea di una possibilità legittima di presentare le proprie ragioni, poi diventata illegittima solo nell’eccesso di difesa.

Io non ero a Genova. Dovevo esserci, volevo esserci. Ma evitai di andare. Qualcosa mi tenne lontano da quella città durante il G8. Seguii tutte le dirette video. Vidi in tv la morte di Carlo Giuliani, 23 anni, per mano dello Stato italiano. E ringraziai quella parte di me cui dovevo forse l’essere indenne da ferite, sanguinamenti, forse, persino, perché no, la morte.

Io mai mi sarei messo con un estintore davanti ad una camionetta dei Carabinieri. Ma chi può giudicare Carlo Giuliani? Chi può giudicare chi sotto attacco di uomini e donne di Stato, armati, protesi alla macelleria umana reagisce? C’è qualcuno ancora convinto in Palestina chi tira sassi commetta un delitto spirituale? Al massimo un delitto per le leggi di uno stato occupante. Questa almeno è la mia opinione. Poi io non ho mai tirato un sasso uno ad esponenti dello Stato. Io andai a Firenze per il Forum Sociale Europeo e non a Genova. Poi io scelsi di tenermi sempre alla lontana da chi sceglieva la guerriglia domenicale con una forza dell’ordine inevitabilmente quanto giustamente superiore sul piano militare. Lo sfogatoio.

Perché quale senso sta nello sfogatoio devastatore dove altre persone comuni, lavoratrici e lavoratori, si trovano poi a ripulire, rimettere sanpietrini a posto, aggiustare vetrine? Questa almeno è la mia opinione. Sono tutte cazzate. Gli sfogatoi della democrazia italiana sono tutte cazzate. Le botte allo stadio tra gli Ultras, le guerriglie degli anni Novanta, Duemila, Duemiladieci/11… erano tutte cazzate. Sfogatoi. E chi pensava così di far vedere il “disagio” a mio parere, umile e personale, aveva sbagliato il colpo.

La morte di Carlo Giuliani comunque per me fu uno spartiacque. Lo Stato aveva sparato a un mio quasi coetaneo. Reo di aver cercato di reagire ad un’aggressione di Stato. Lo Stato non aveva sparato in aria. Lo Stato non stava rischiando una vita. Si era messo in mezzo ad una piazza e aveva generato lo scontro e poi aveva sparato contro un 23enne con un estintore nelle mani. Sicuramente incappucciato. Sicuramente speranzoso di buttare quell’estintore contro quella camionetta ingiusta. Ma disarmato. Senza pistola. E lo Stato paternalista e maternalista avrebbe potuto disarmare quel ragazzo, rendere impossibile portarlo in quella piazza così, avrebbe potuto sparare in aria, far venire i rinforzi. Avrebbe potuto salvare la sua vita. E scelse di ucciderla.

In quel momento per me la politica italiana morì. Morì il contratto sociale.

L’8 gennaio 2021 lo Stato è morto una seconda volta. Ma questa volta davanti al Tribunale della Corte di Cassazione, a Roma, non c’era un ragazzo di 23 anni incappucciato con un estintore in mano. C’era una madre. Con il cartello raffigurante la figlia uccisa dall’inefficienza, ignavia, accidia dello Stato. Una figlia, Emanuela, morta dopo 45 giorni di agonia. Quella donna si chiama Daniela Rombi. Ho avuto l’onore di conoscerla circa 10 anni fa. Daniela aveva e ha il diritto ad elaborare il suo lutto. Ha e aveva il diritto ad elaborare la perdita di Emanuela Menichetti, di sua figlia. Come ogni madre, come ogni caro di un defunto portato via dalla vita. Ma per 11 lunghi anni ha dovuto unire al suo lutto, costante, devastante, la ricerca di dare pace al suo umano, straordinario, civile bisogno di verità e giustizia.

Io credo che pochissime persone riescano a intendere cosa significhi, emotivamente, portare per 11 anni l’immagine di Emanuela ovunque in Italia. Portare quella croce con la cordicella bianca davanti a capi di Stato, ministri, persone comuni. Vestirsi ogni 29 giugno con gli abiti di quella notte. Rivivere ogni giorno l’incubo di quel giorno, di quel momento, di quella telefonata dove Emanuela cercò di rassicurarla.

C’è uno spettacolo teatrale straordinario. Tutte le italiane e tutti gli italiani dovrebbero vederlo. Un giorno chi popola il mondo, ovunque, dovrebbe farne esperienza. In quello spettacolo scritto e diretto da due persone straordinarie – Davide Moretti, persona e drammaturgo impressionante per capacità e sensibilità (purtroppo rimasto tra noi solo nel ricordo) e Ilaria Lonigro, donna straordinaria oltre a straordinaria giornalista e drammaturga – c’è un pezzo di arte revoluzionario. Tutto lo spettacolo è revoluzione. Ma quel pezzo, quella parte, lo è oltre ogni limite. E’ il monologo di una Emanuela “spirito” nel parlare a Daniela. Guardate prendetevi il tempo di ritrovarlo, di chiederlo a Ilaria, di farne esperienza. E’ qualcosa di indescrivibile nella sua capacità di riportarci all’abc dell’esistenza. La base dell’essere, dell’amore, della verità e della giustizia.

Daniela, la nostra Daniela, era a Roma l’8 gennaio 2021. E lì, quando i legali le hanno descritto il dispositivo della sentenza di Cassazione con cui, a qualsiasi primo sguardo, quegli 11 anni di mancata elaborazione del lutto – per inestinguibile bisogno di verità e giustizia – le devono essere parsi nulla, vilipesi, traditi, in modo disumano, inaccettabile… Daniela ha urlato. Ha urlato il suo strazio di donna, di madre, ma prima ancora di persona. Di essere umano devastato dal riconoscere la fine di ogni giustizia e verità in quelle parole. La fine di ogni empatia. Di ogni senso.

Daniela è la nostra Marianne. E’ il simbolo della parte migliore di questo popolo, di questa umanità. Quella connessa con la propria anima, con i propri sentimenti, perennemente alla ricerca di sentirne l’eco nelle scatole alessitimiche di norme e istituzioni.

Daniela è il simbolo della fine dello Stato. Della morte dello Stato Italiano. Della morte del primo figlio adottivo, maleducato, della Repubblica Italiana.

Un morto deambulante. Oggi esiste ancora. Oggi agisce ancora. Manda notifiche per pagare multe e bolli. Risponde, sempre più di rado, al telefono al quinto squillo. Assicura stipendi ai suoi servitori e alle sue servitrici. Ma è morto. La Repubblica Italiana incarnata in questo Stato Italiano perì l’8 gennaio 2021. Nell’urlo di Daniela Rombi.

Ne siamo rimasti devastati. Ci ha annichilito. Ci ha spento la luce. Ha urlato in un attimo “è finita”. Il suo “bastardi” era quello. Il grido di una Marianne: “La Repubblica Italiana è stata colpita a morte oggi dallo Stato Italiano”.

Lo Stato eversore e eversivo. Quello incardinato nella sudditanza dal cosiddetto alleato statunitense. Quello incastonato nei biglietti reali o eterei dell’accordo a due o tre con cui trent’anni fa fu decisa la pax con la mafia, a colpi di stragi. Lo Stato inefficiente, inefficace, narratore di conflittualità presunte, mai reali.

Nel grido di Daniela c’era il grido della Repubblica Italiana: “Lo Stato ci ha ucciso una seconda volta”. E cosa avrebbe ucciso? Ha ucciso non la speranza nella giustizia o nella verità. Da subito richiamate dai familiari delle vittime della strage di Viareggio (alias “disastro ferroviario non incidente sul lavoro” per la Quarta Sezione penale della Corte di Cassazione). No. Ha ucciso la fiducia nello Stato di queste persone e con loro delle circa 135mila in Italia a loro indubbiamente vicine. E tramite queste 135mila, con i sei gradi di separazione, dell’umanità intera.

Lo Stato Italiano ha ucciso la fiducia in lui. La Repubblica agonizzante si sta già rialzando. Troverà in Daniela, in Marco Piagentini, in questi guerrieri di pace, di amore e di verità, i fari di una rinascita. La Repubblica è viva. E da buona madre ha semplicemente capito “clicca tasto destro, sposta Stato nel cestino”. Sta valutando il tempo di “svuotare cestino”. Arriverà presto quel momento. Ne sono convinto.

Articolo Precedente

“Tangenti dall’Azerbaijan”: l’ex deputato Volontè condannato a 4 anni per corruzione

next
Articolo Successivo

Harry Potter e la camera dei DPCM

next