Hayao Miyazaki, cineasta, fumettista, narratore visionario, compie nel 2021 ottant’anni, di cui più di 50 di carriera nel campo dell’animazione. Oggi come più di trent’anni fa, ovvero quando ha contribuito a fondare lo Studio Ghibli e iniziato a produrre lungometraggi indipendenti, scrivere delle sue opere continua a non rendere giustizia all’atto di esperirle.

Questo discorso vale per ogni artista in grado di riplasmare l’immaginario del pubblico e dello scenario culturale che gli succede, proprio nel senso etimologico del sŭb- e cedĕre, ovvero del sottentrare, del “venire dopo” qualcosa o qualcuno. Sebbene Miyazaki non sia stato il primo autore, in termini cronologici, a oltrepassare il velo che separa l’immaginario animato orientale da quello occidentale (un grande ruolo in questo processo lo hanno avuto sia il suo sodale Isao Takahata che Osamu Tezuka), è innegabile che sia stato l’autore ad aver raggiunto il maggior coefficiente di “successo” nel farlo.

Miyazaki si è affermato in quanto creatore di mondi, in quanto autore incapace di farsi mero narratore, bensì testimone prolifico e costante di una poetica sempre coerente rispetto a se stessa, ma mai ripetitiva. I suoi film sovvertono l’idea occidentale di rapporto utilitaristico tra uomo e natura, restituiscono agli occhi dello spettatore lo stupore fanciullesco di fronte alle meraviglie che questo rapporto può schiudere, quando alla sua base c’è l’equilibrio.

Nella varietà dei toni dei suoi film, nella varietà dei suoi registri e delle sue atmosfere, non manca di sottolineare quanto ambivalente sia questo incanto. Le salde radici shintoiste dell’animismo che permea i suoi lavori non si limitano infatti a tracciare una linea di rami in cui tutta la natura è semplicisticamente buona e in cui tutto il progresso tecnologico è cattivo. I kami, gli spiriti della natura che popolano la sua filmografia, possono essere bonari e pittoreschi come Totoro, ma anche morbosi e terrificanti come il Senza-Volto de La città incantata.

Allo stesso modo gli antagonisti delle sue storie sono raramente monodimensionali, bensì rappresentazioni complesse dell’altrettanto complesso rapporto tra essere umano e mondo che lo circonda. Un esempio eloquente è Eboshi, la signora del Villaggio del Ferro de La principessa Mononoke: i suoi seguaci distruggono la foresta in cerca di ferro e scatenano la furia degli spiriti, ma il suo modello di società “razionale” è profondamente inclusivo e solidale nei confronti dei cosiddetti reietti. Quello che la separa dalla pace con gli spiriti è l’incapacità di conciliare la propria visione con quella altrui.

Allo stesso modo, Porco rosso contiene un’ode alla tecnologia che si fa materializzazione di sogni, più che di riprovevoli arnesi da guerra.

Il conflitto, in Miyazaki, si fa sì ineluttabile, ma anche occasione di riconciliazione, di metamorfosi dalle possibilità proattive. Il suo più grande contributo alla contemporaneità è la sua capacità di farsi profeta di un’armonia faticosa tra essere umano e natura, mai menzognera o autoindulgente nel suo ottimismo, ma sempre eloquente nella sua grammatica di meraviglia.

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