“Morto a 64 anni Paolo Rossi Campione del mondo 1982”. Ho letto la notizia sull’Ansa, come tanti. L’ho riletta un paio di volte, lentamente. Quasi per darmi il tempo di capire. Per rendermi conto che era vero. Nessuna commozione, come sarebbe stato più naturale. Mi sono arrabbiato. Con chi? Con la vita, che scorre. Tra una interrogazione a scuola e magari un esame all’università. Un successo e una sconfitta. Un film e un goal.

Già, i goal. Il calcio. Anzi, il pallone. Quello giocato, con gli amici, per la strada in tempi che ormai sembrano lontanissimi. Oppure in campi quasi regolari. Rigorosamente di terra. Polverosi con la bella stagione. Fangosi con la pioggia. Duri come il cemento se gelava. Preistoria, ormai.

Non ho mai conosciuto Paolo Rossi. Personalmente, intendo. Non ci ho mai giocato insieme, né “contro”, naturalmente. Non soltanto perché lui era più grande di dieci anni. Lui un calciatore professionista, io un dilettante. Nessun autografo e neppure foto-ricordo. Quelle che finivano incorniciate, appese nella propria camera. Eppure Paolo Rossi é stato nella mia vita, da ragazzo.

C’è stato, come in una favola. Che si è conclusa la notte del Bernabeu, a Madrid, nel 1982. Quando ha aperto con un suo goal al successo sulla Germania, nella finale della Coppa del mondo. Una favola, iniziata anni prima al Lanerossi Vicenza di Giovan Battista Fabbri. Allora e anche dopo, l’ho visto giocare diverse volte a Roma, all’Olimpico, contro la Lazio. Mi piaceva da impazzire come si muoveva in campo. Quella sua inimitabile rapidità. Prima di tutto, nel pensiero. Quel suo anticipare, sempre. Tutto. Giocata del difensore e respinta del portiere.

Mi piaceva Paolo Rossi, perché aveva un fisico magro. Asciutto. Spalle strette. Un po’ come me. “Uno” che già ai suoi tempi appariva strutturalmente diverso dalla gran parte dei colleghi calciatori ai massimi livelli. “Uno” che probabilmente non riuscirebbe ad emergere ora. Anzi, da tempo. Ormai anche i calciatori devono avere masse muscolari importanti. Fisicità predeterminate. Chissà, forse perché così i tatuaggi con i quali si riempiono il corpo siano più ben in vista.

In ogni caso, Paolo Rossi, è stato un fenomeno. In campo lo trovavi ovunque. Poi scompariva. Senza quasi accorgersene lo trovavi davanti alla porta a far goal. In mille modi. E poi, subito dopo, lo vedevi correre, felice per l’ennesima prodezza. Perché a me Paolo Rossi sembrava felice. Almeno in campo. Ho avuto sempre la sensazione che si divertisse. Come me, quando giocavo con i miei amici sotto casa, in strada.

Mi piaceva Paolo Rossi perché era un ragazzo timido. “Uno” che parlava poco e a bassa voce. Durante le interviste, qualche volta arrossiva. Abbassava per un attimo lo sguardo.

Mi piaceva Paolo Rossi perché aveva scalato il mondo del pallone. Dai piccoli stadi delle province italiane, giocando con il “9” sulle spalle per il suo Lanerossi Vicenza ai grandi stadi argentini con il “21” sulla maglia azzurra, durante il mondiale del 1978. Quasi una favola, la sua. Con qualche tristezza che spero avesse superato. Magari ripensando a quando era ragazzino. A quando anche lui giocava “per gioco”.

Nino capì fin dal primo momento,
l’allenatore sembrava contento
e allora mise il cuore dentro alle scarpe
e corse più veloce del vento.
Prese un pallone che sembrava stregato,
accanto al piede rimaneva incollato,
entrò nell’area, tirò senza guardare
ed il portiere lo fece passare.

Il Francesco De Gregori di una canzone speciale per Te, caro Paolo. Amico, senza saperlo.

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