Il 25 novembre potrebbe essere uno dei rarissimi giorni buoni nella storia del popolo saharawi. Quel giorno la Corte di cassazione del Marocco dovrebbe emettere il verdetto definitivo sulla vicenda giudiziaria riguardante 19 saharawi arrestati dieci anni fa e che stanno attualmente scontando pene da 20 anni all’ergastolo.

L’8 novembre 2010 le forze di sicurezza marocchine smantellarono un accampamento di circa 6500 tende che un mese prima gli attivisti e le attiviste saharawi avevano allestito a Gdeim Izik, per protestare contro le condizioni socioeconomiche della popolazione nella zona del Sahara occidentale occupata sin dal 1975 dal Marocco.

Nel corso del violento sgombero 11 membri delle forze di sicurezza marocchine vennero uccisi: alcuni investiti da automobili, altri sgozzati. Molti dei saharawi arrestati al termine dello sgombero furono picchiati e sottoposti ad altri maltrattamenti. Venticinque di loro vennero accusati di aver fondato un gruppo criminale e aver preso parte ad atti di violenza contro le forze di sicurezza con l’intenzione di uccidere.

Un imputato fu liberato nel 2011. Altri due vennero scarcerati nel 2013 da una corte marziale che giudicò colpevoli gli altri 22 (uno dei quali in contumacia, essendo fuggito in Spagna).

I giudici militari fecero affidamento quasi interamente sulle confessioni rese alla polizia dagli imputati dopo l’arresto, senza preoccuparsi d’indagare sulle denunce di tortura cui sarebbero stati sottoposti: pestaggi, sospensioni per gli arti, stupri con oggetti appuntiti, strappo delle unghie delle mani e dei piedi.

Nel 2016 la Corte di cassazione annullò il verdetto sostenendo che si era basato su prove inconcludenti e rinviò il caso ai tribunali civili per un nuovo processo.

Un anno dopo, la Corte d’appello di Salé confermò le condanne, asserendo di aver esaminato nuove prove e dopo aver ammesso in causa come parte civile la famiglia di un poliziotto sgozzato negli scontri del 2010. Le denunce di tortura ignorate nel primo processo vennero formalmente prese in considerazione, ma gli esami medici disposti dal giudice non poterono ovviamente confermare che sette anni prima gli imputati fossero stati torturati. Pertanto, le confessioni ammesse come prove nel primo grado vennero ritenute valide anche nel secondo.

Due imputati vennero condannati al periodo di pena già scontato e liberati. Gli altri 20, compreso quello fuggito in Spagna, ricevettero pene da 20 anni all’ergastolo.

I 19 prigionieri, che fino ad allora erano rimasti nella stessa prigione di Salé, vennero trasferiti in vari istituti di pena del Marocco, distanti da 500 a 1200 chilometri da El-Ayoun, dove risiede la maggior parte delle loro famiglie.

Un anno fa Claude Mangin, la moglie di Naama Asfari, cittadina francese, è stata dichiarata “minaccia per l’ordine pubblico” e le è stato vietato di entrare in Marocco. Proprio su Asfari si era pronunciato il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, dichiarando che le autorità marocchine non avevano indagato sulle denunce di tortura del 2010 e si erano basate su confessioni estorte con la tortura.

La Corte di cassazione può ora dichiarare nullo il verdetto del 2017, come fece nel 2016 rispetto a quello del 2013, e ordinare un nuovo processo. Altrimenti le condanne resteranno confermate e l’unica possibilità per i prigionieri saharawi sarà chiedere la grazia al re.

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