Quello di casa è un concetto imperfetto. Perché le città straniere sono come enigmi da decifrare. Alcune ti masticano per poi sputarti via lontano. Altre ti abbracciano fino ad imprimerti dentro il loro calore. Ne sa qualcosa Cesare Prandelli di Orzinuovi, Brescia, che ha trovato la sua casa a Firenze. Per la seconda volta. Da lunedì l’ex ct della Nazionale è il nuovo allenatore della Viola. A dieci anni esatti dal suo addio. C’era arrivato la prima volta nel 2005, quando il rettilineo della sua carriera aveva incontrato la sua prima curva a gomito. Un anno prima la Roma lo aveva scelto per sostituire Fabio Capello, il sergente di ferro che dopo aver detto pubblicamente che non sarebbe mai andato alla Juventus era andato proprio alla Juventus. Prandelli aveva accettato la panchina, aveva salutato i tifosi, aveva spiegato come avrebbe voluto far giocare la squadra. E poi si era chiamato fuori prima dell’inizio del campionato. Troppo grande il dolore per la malattia della moglie Manuela (che morì nel novembre 2007) per illustrare schemi e movimenti ai giocatori. Da allora la sua carriera si era trasformata in un continuo fissare il telefono in attesa di una telefonata.

L’inizio assomigliava a un incubo. Nel 1993/1994 l’Atalanta lo promuove sulla panchina della prima squadra. Ma non per affidargli un nuovo progetto. C’è da sostituire l’esonerato Guidolin e provare a fare in modo che la barca non affondi troppo velocemente. Solo che la Dea continua a imbarcare acqua e finisce per naufragare nelle acque limacciose della Serie B. Tre anni dopo il Lecce decide di scommettere su di lui. Prandelli perde le prime cinque partite. Le cose cambiano in fretta. Ma non abbastanza. Dopo 18 gare il Lecce è penultimo. E l’allenatore pensa di non essere l’uomo giusto al posto giusto. Così rassegna le dimissioni. Ma non c’è fine che non porti a un nuovo inizio. Prandelli trova una panchina a Verona, in B. In un anno porta l’Hellas in A, poi addirittura in Intertoto. Un’impresa che desta meraviglia. E che prova a ripetere anche a Venezia. In una sfida di cadetteria affronta il Genoa. A fine partita Cesare si lamenta per qualche episodio sfavorevole. Franco Scoglio lo fissa e poi sbotta: “Ecco, mo’ fa l’allenatore anche Prandelli”. Un giudizio che il Professore dovrà rimangiarsi poco tempo dopo.

Perché a Parma Cesare dimostra di essere un tecnico capace di far giocare bene la sua squadra. Ma anche di creare legami importanti. Con i suoi modi da reverendo laico crea rapporti stretti con Adriano (che lo definirà l’allenatore più importante della sua carriera), Mutu, Ferrari, Bonera, Gilardino. In un biennio oscurato dalla crisi finanziaria della Parmalat, Prandelli centra due quinti posto che valgono la Uefa e l’etichetta di tecnico emergente. Poi arriva la Roma e quella pausa forzata. Il telefono di Cesare inizia a squillare nel maggio del 2005. La Fiorentina che si è salvata fra indicibili sofferenze cerca il sostituto di Zoff che aveva sostituto Buso che aveva sostituito Mondonico. A salutarlo si presentano in 2mila. “Faremo degli errori ma non dovremo vergognarcene – dice Prandelli – dobbiamo essere ambiziosi, dobbiamo far innamorare la gente della squadra e non dei singoli”. E ci riesce.

La sua Fiorentina gioca bene e viene trascinata da Luca Toni. Il primo anno chiude nona, ma è un crescendo. Seguono un sesto posto e due quarte piazze che valgono la Champions League. La Viola è di nuovo fra le grandi del nostro calcio. L’incantesimo non dura molto. Nel 2010 si concede il lusso di battere due volte il Liverpool ma le cose non girano. In campionato è solo undicesimo. Lo slancio sembra essere finito. I Della Valle ripetono che Prandelli non si muoverà, invece è già pronta la sua nuova sfida. Lippi lo indica come il suo erede in Nazionale. Un incarico che Cesare accetterà introducendo il codice etico. Si crea una situazione che ricorda molto Animal Farm di Orwell. Tutti i giocatori sono uguali. Cassano e Balotelli sono più uguali degli altri. Il sogno degli Europei del 2012 viene seppellito in finale sotto i 4 gol di una Spagna troppo forte. Quello del Mondiale 2014 dura ancora meno. La spedizione azzurra non supera neanche il girone. Il suo fallimento è racchiuso nei denti di Suarez che affondano nella spalla di Chiellini e negli occhi spaesati di Verratti che a fine partita dice: “Non ci sta che uno moccica l’avversario e non viene cacciato”. Cesare finisce nella polvere. Per lui c’è solo la periferia del calcio. Lo chiamano Galatasaray, Valencia, Al-Nasr e Genoa. Tutte sfide a termine. Tutte esperienze in cui non riesce a incidere. Almeno fino a ieri, quando Prandelli è tornato a casa.

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