“Muoio? Non è un problema… Io muoio con le palle… e no da infame indegno”. Nel basso Salento per qualcuno l’omertà è valore da preservare a costo della vita. Anche se intorno infiamma una guerra tra clan per il controllo del narcotraffico, capi e soldati restano in silenzio. Si organizzano militarmente per seguire le mosse degli avversari e laddove necessario non esitano a sparare. È successo due volte nel 2018 a Melissano, piccolo comune tra Lecce e Santa Maria di Leuca a pochi chilometri dalle spiagge di Gallipoli. Sotto i colpi dei sicari sono caduti Manuele Cesari e Francesco Luigi Fasano. Esecuzioni che hanno segnato la scissione del clan che operava in quel versante della provincia leccese e che hanno dato il via a una maxi inchiesta condotta dai carabinieri del Reparto Operativo e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce.

Le attività dei carabinieri guidati dal colonnello Pasquale Montemurro, però, è riuscita non solo a fare luce sugli autori di quegli assassini (arrestati già qualche mese dopo i delitti), ma anche sugli assetti che col passare del tempo si sono sviluppati in quel territorio. Con l’operazione “Svolta 2.0” hanno arrestato 23 persone: 8 in carcere e 15 ai domiciliari accusati a vario titolo di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, duplice tentato omicidio, armi ed estorsioni.

Lo spartiacque nella storia criminale del territorio è l’omicidio di Cesari, l’uomo che teneva insieme le diverse anime del clan capeggiato dai fratelli Antonio e Ferdinando Librando. L’omicidio scatena anche all’interno del clan “la bramosia – si legge nelle 108 pagine che compongono l’ordinanza di custodia cautelare – di ascesa al potere dei vari appartenenti” al clan e “rotto ogni equilibrio”. La situazione degenera dando vita allo scontro tra due fazioni interne all’organizzazione: da un lato il gruppo “barbetta” (costituito secondo gli inquirenti da Luciano Manni e i figli Daniele e Maicol Andrea) e dall’altro quello di Pietro Bevilacqua e Biagio Manni. Le indagini hanno inoltre appurato come, nonostante la guerra interna, al vertice del sodalizio sia rimasta inviolata la supremazia di Antonio Librando, che vanta nel curriculum criminale una condanna definitiva per mafia come promotore di un sodalizio criminale che operava proprio su Melissano.

I gruppi organizzavano summit nei quali venivano prese le decisioni più importanti: dalle carte dell’inchiesta emerge l’attenzione negli atteggiamenti e nei linguaggi oltre che negli spostamenti e nelle tecniche di avvicinamento e comunicazione utilizzate quando entravano in contatto tra loro. Una serie di misure di precauzione che, secondo l’accusa dei pm dell’antimafia di Lecce Gugliemo Cataldi e Anna Maria Vallefuoco, denotano “una elevata caratura criminale anche dal punto di vista organizzativo”.

Le intercettazioni telefoniche raccolte dai militari hanno permesso di documentare non solo l’acuirsi delle diatribe tra i due gruppi, ma le tensioni e le prese di posizione per la conquista di posizioni gerarchiche da rivestire all’interno del gruppo per il controllo delle attività di approvvigionamento e distribuzione della droga oltre che della spartizione incassi. Le cimici piazzate anche nel carcere, dove alcuni indagati sono stati ristretti dopo gli arresti per i due omicidi, hanno inoltre svelato il carattere granitico e l’estremo senso di appartenenza all’organizzazione di alcuni di loro. Come uno degli indagati che ai timori mostrati dalla sua fidanzata su pericoli che correva in una fase delicata per gli scontri lo prega di fare attenzione: “Tutti fanno schifo non è questione e… ieri sera è stato…(inc)…eh… apri gli occhi casomai devono dare la colpa a qualcuno”. E lui rispondeva in modo netto: “Muoio? Non è un problema… io muoio con le palle… e no da infame indegno”.

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