Per una fortunata coincidenza, proprio nell’anno del primo centenario della nascita di Gesualdo Bufalino (Comiso, 1920-1996), ecco riemergere, durante i lavori per il trasferimento dei materiali dell’archivio storico dell’università di Palermo, il dattiloscritto della tesi di laurea dello scrittore siciliano, intitolata Gli studi di archeologia e la formazione del gusto neoclassico in Europa (1738-1829).

Bufalino si era iscritto all’università a Catania nel 1940, ma discuterà la tesi solo sette anni dopo, a Palermo, finita l’esperienza della guerra e della lunga malattia che lo costringe in sanatorio, prima a Scandiano, in Emilia, dal 1944 al 1946, poi a La Rocca, tra Palermo e Monreale, fino al 1947: sono questi gli anni in cui e da cui, molto più tardi, prenderà forma la parabola del Bufalino scrittore, una parabola fortemente autobiografica, dal romanzo d’esordio, Dicerie dell’untore (1981), a Calende greche (1990).

È per questo che, al di là del pregio documentario della trouvaille, la scoperta del dattiloscritto rappresenta una straordinaria opportunità di (re-)interpretazione dell’opera di Bufalino – in particolare, dato l’argomento della tesi, per quanto riguarda il suo rapporto con l’antico, col passato. Il ‘gusto neoclassico’ di cui si occupa la tesi indica infatti quel complesso movimento europeo di riscoperta e riappropriazione dell’antichità classica che, tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, investe tutti i settori delle arti: ci si potrà chiedere allora in che modo, in quale misura lo sguardo giovanile sul neoclassicismo abbia influito, a distanza di più di trent’anni, sulla produzione di uno scrittore per il quale, come ha scritto Maria Corti, “non è la realtà passata che urge, che preme, ma la memoria e il sogno di essa” (basti pensare al titolo del romanzo del 1984, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria).

Che cosa vuol dire recupero del passato per uno scrittore che arriva a concepire l’autobiografia come Ricordi di una vita immaginaria (così il sottotitolo di Calende greche nella seconda edizione, del 1992), che intende la memoria come fantamemoria, rilettura e reinvenzione del passato attraverso la scrittura, che si fa così “solo nostro alleato contro la morte” (in Essere o riessere, conversazione con Nunzio Zago edita nel 2010)? E qual è dunque, e come si evolve, il suo sguardo sul principio (neo)classico dell’arte come imitazione della natura? Più in generale, che cosa rappresenta l’antico per chi, come Bufalino, scrive “specialmente per essere ricordato e per ricordare, per vincere entro di sé l’amnesia, il buco grigio del tempo”?

Queste sono solo alcune delle domande con cui gli specialisti potranno affrontare la lettura della tesi di laurea di Bufalino, con l’occhio alla definizione sempre più organica del profilo letterario e umano di uno dei grandi scrittori del Novecento italiano.

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