L’Ecofin, il consiglio dei ministri economico-finanziari dell’Unione europea, ha deciso di aggiungere alla lista delle giurisdizioni fiscalmente non cooperative Anguilla e Barbados, mentre ha rimosso le isole Cayman e Oman “dopo aver approvato le necessarie riforme per migliorare il quadro della tassazione”. Ora sono 12 le giurisdizioni sulla lista: le Samoa americane, Anguilla, Barbados, Fiji, Guam, Palau, Panama, Samoa, Seychelles, Trinidad e Tobago, le Isole Vergini e Vanuatu. Naturalmente della lista UE non fanno parte i paesi europei che pure applicano regimi fiscali non sempre trasparenti e favorisco pratiche elusive. Si pendi a Lussemburgo, Olanda o Irlanda.

Soddisfatto il premier delle isole Cayman Alden McLaughlin che ha ribadito come il suo paese rimanga del tutto allineato alle migliori pratiche fiscali internazionali, sottolineando come la decisione Ue segua una simile già adottata dall’Ocse. “Continueremo a collaborare con l’Ue e a sviluppare collaborazioni nel reciproco interesse”, ha aggiunto.

Diversa la valutazione da parte di diverse organizzazioni no profit tra cui Oxfam. “Bene l’aggiunta di Barbados, ma la rimozione delle Isole Cayman Islands, uno dei più noti paradisi fiscali al mondo, dalla lista Ue è un’ulteriore prova che il processo non funziona”, ha affermato Chiara Putaturo, consulente dell’organizzazione sulle questioni fiscali. “I paradisi tolgono ai Paesi poveri e ricchi centinaia di miliardi in gettito perduto ogni anno, denaro che serve più che mai durante la pandemia. Ma invece di renderli responsabili, la Ue consente che i Paesi più aggressivi vengano rimossi dalla lista”, spiega. “”Se la lista deve avere credibilità, la Ue deve includere tutti i Paesi che operano come paradisi, inclusi quelli con aliquota zero per le imprese e quelli dove gli investimenti privati superano il livello dell’attività economica reale”, aggiunge Putaturo.

Tax Justice Network, rete di professionisti impegnati nella denuncia di pratiche fiscali scorrete, collocano le isole Cayman al primo posto su 130 nella lista dei paesi con la legislazione fiscale più opaca. “Come tutti i paradisi fiscali anche le Cayman cercano di darsi un’immagine di trasparenza, collaborazione e pulizia”, si legge nella scheda dedicata all’ex colonia britannica e, in tempi più lontani, o forse no), roccaforte della pirateria. Il rapporto concede al paese di avere fatto alcuni sforzi nella giusta direzione dopo la crisi finanziaria del 2008. In particolare di aver siglato un accordo di scambio automatico di informazioni con l’Ue e di aver accettato l’invito dell’Ocse nel contribuire a mettere a punto il cosiddetto “country by country report”, ossia un documento che svela quanti profitti denunciano le multinazionali paese per paese. Molto però è stato fatto più nella forma che nella sostanza, visto che un’infinita serie di cavilli limita di molto l’effettiva efficacia degli impegni assunti dalle Cayman. In realtà il paese continua a introdurre nuovi schemi fiscali che agevolano l’occultamento di profitti. Da ultimo il “Cayman LLC” modellato su un analogo strumento sviluppato nel Delaware, il paradiso fiscale made in Usa.

Molte grandi banche statunitensi si servono di questi strumenti per erogare prestiti e tenerli fuori bilancio (in questo mondo non sono tenuti ad accantonare fondi a garanzia di eventuali predite). La statunitense Wells Fargo ha in essere prestiti che “passano per le Cayman” per 1.500 miliardi di dollari, Bank of America 570 miliardi di dollari, Citigroup 430 miliardi, Jp Morgan 250 miliardi, Morgan Stanley 230 miliardi e Goldman Sachs 110. Secondo ricostruzioni di TJN alle isole è riconducibile il 4,5% dell’immenso flusso di capitali off shore. Per Bruxelles non è un problema.

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