Si potrebbe chiamare “effetto collaterale” del conflitto che va avanti da oltre cinque anni tra gli huthi, il gruppo armato yemenita, e la coalizione militare saudita-emiratina.

Ma quell’espressione, anche in questo caso, non rende l’idea dell’inferno che hanno trascorso e stanno trascorrendo migliaia di famiglie di migranti etiopi, espulse dagli huthi a partire da marzo con lo scoppio della pandemia da Covid-19 e finite, non appena varcato il confine, nelle carceri saudite.

Le testimonianze raccolte da Amnesty International, attraverso 12 interviste condotte tramite una app di messaggistica tra il 24 giugno e il 31 luglio di quest’anno, sono raccapriccianti: donne incinte (spesso a seguito di violenza sessuale subita in Yemen), neo-mamme e loro piccoli tutti ammassati in celle squallide e sovraffollate, detenuti incatenati l’uno all’altro e costretti a fare i loro bisogni sul pavimento, assenza di cure mediche per quelli che sono stati feriti dal fuoco incrociato lungo il confine.

Ci sono detenuti che indossano gli stessi vestiti che avevano al momento dell’espulsione dallo Yemen.

“Qui è un inferno, è peggio della pandemia. Non ho mai visto niente del genere in vita mia. Non ci sono gabinetti, dobbiamo urinare in un angolo della cella, a poca distanza da dove dormiamo”, ha raccontato Zenebe (non è il suo vero nome), detenuto nella prigione di Al Dayer.

Sono tre i morti accertati da Amnesty International, che non ha potuto verificare il decesso di altri quattro detenuti. Si parla anche di bambini morti di malattie e di numerosi tentativi di suicidio.

Chi protesta chiedendo medicine, abiti puliti o acqua potabile viene picchiato dai secondini o torturato con le scariche elettriche.

Amnesty International ha sollecitato le autorità saudite a rilasciare immediatamente tutti i migranti detenuti e ha chiesto al governo dell’Etiopia, i cui funzionari hanno visitato le carceri dove si trovano i loro connazionali e dunque un’idea se la sono fatta, di organizzare urgentemente i rimpatri.

Nonostante le restrizioni dovute alla pandemia, tra aprile e settembre almeno 34.000 migranti etiopi sono rientrati nel loro paese, 3998 dei quali dalla stessa Arabia Saudita.

Pur riconoscendo che il governo di Addis Abeba dice il vero quando cita le difficoltà di allestire centri dove isolare in quarantena i nuovi arrivati, il rimpatrio di persone disperate e a rischio di morire da un momento all’altro nelle carceri saudite può e deve essere organizzato.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa 2000 migranti etiopi si trovano ancora sul lato yemenita del confine, senza che nessuno si prenda cura di loro.

Immagine: Prigione di Al Dayer, Google Earth © 2020 CNES/Airbus

Articolo Precedente

“Il disprezzo per i deboli si può nascondere nel populismo e negli interessi economici dei potenti”, la terza enciclica del Papa è la più politica

next