“Non vogliamo diventare un Sussidistan”, ha sostenuto il presidente di Confindustria Carlo Bonomi all’assemblea annuale degli industriali. Eppure ogni anno le aziende ricevono ingentissimi aiuti dallo Stato. Ripubblichiamo l’articolo uscito sul numero 35 di FQ Millennium, lo scorso giugno, in cui abbiamo calcolato quanto ci costano.

Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha un bel dire che «nel decreto di aprile non ci sia nulla sull’industria», ma solo «denaro a pioggia» nella «logica del dividendo elettorale». Soprattutto perché, da sempre, quando si tratta di battere cassa gli industriali italiani non sono secondi a nessuno. Al punto che al ministero dello Sviluppo economico c’è persino un’intera task force dedicata esclusivamente agli incentivi alle imprese. Con flussi di denaro a favore del sistema industriale che, nella migliore delle ipotesi, superano di quasi tre volte il budget stanziato a favore del reddito di cittadinanza.

Ogni anno decine di miliardi di euro finiscono nelle casse delle aziende sotto forma di sussidi alla produzione o alle esportazioni, incentivi fiscali e contributivi, oltre che sostegni agli investimenti. Denaro che talvolta viene distribuito a fondo perduto e talvolta viene parcellizzato sotto forma di agevolazioni fiscali ai contribuenti. «Gli industriali italiani hanno avuto sempre tutto» sintetizza Ugo Marani, professore di economia all’Università L’Orientale di Napoli. Ma senza una reale politica industriale nazionale che definisca settori strategici, piani pluriennali e obiettivi. Così, nonostante l’ingente quantità di denaro a favore delle imprese, l’enorme sforzo pubblico viene in buona parte vanificato. Un lusso che il Paese non può più permettersi, come suggerisce l’ex ministro Giorgio La Malfa. Soprattutto nella fragile economia post Covd-19 in cui la disoccupazione cresce rapidamente, la spesa delle famiglie si assottiglia e la merce rischia di restare sugli scaffali dei supermercati e nelle vetrine dei negozi.

Persino durante il lockdown il sostegno alle imprese è aumentato. È stata così alimentata una vasta gamma di aiuti e aiutini di cui è difficile ricostruire l’esatto ammontare. Secondo il database comunitario Ameco solo nel 2019 il governo italiano ha destinato circa 20 miliardi agli imprenditori. Si tratta di una stima conservativa, ma significativa perché è quasi il triplo di quanto stanziato per il reddito di cittadinanza dalla legge di bilancio dello scorso anno (7 miliardi). Secondo Bankitalia, invece, nel 2018, la politica è stata ben più generosa, concedendo agli industriali almeno il doppio (40 miliardi) con 14 miliardi di contributi agli investimenti e 26 di aiuti alla produzione registrati nei bilanci delle amministrazioni centrali. Denaro cui vanno poi aggiunti gli effetti benefici sulle aziende delle commesse dello Stato per investimenti pubblici (37 miliardi) e per l’acquisto di consumi intermedi (98 miliardi). Per non parlare di altri sgravi contributivi e fiscali. Un fiume di soldi che non è neanche lontanamente paragonabile al budget previsto per il reddito di cittadinanza su tre anni (2019-2021), pari a circa 23 miliardi.

Prendi i soldi e scappa – Certo, il denaro pubblico speso a sostegno delle imprese genera anche un ritorno socio-economico importante. Ma l’effetto benefico, tutto da quantificare, si sta progressivamente assottigliando per via del fatto che negli ultimi anni non sono state poche le imprese che hanno spostato in toto o in parte la produzione in Paesi con un minor costo della manodopera o con leggi fiscalmente più vantaggiose. Ciononostante, nel pieno della crisi post Covid, Confindustria torna a piangere miseria. Non solo chiede soldi al governo, ma critica le misure a sostegno della domanda come il reddito di cittadinanza o quello di emergenza. Con un’impostazione su cui alcuni economisti hanno delle perplessità. «È essenziale che per mantenere le condizioni di offerta, le imprese abbiano liquidità sufficiente. Non credo che serva per fare nuovi investimenti, ma per pagare gli stipendi o staccare i dividendi. In questa fase c’è una tale capacità produttiva inutilizzata che difficilmente le imprese si arrischierebbero a investire», spiega senza mezzi termini Marani, che ha dedicato la carriera accademica all’analisi del sistema industriale italiano anche all’interno dell’Associazione italiana per lo studio dei sistemi economici comparati. «Ora se le imprese fossero capaci di raggiungere gli stessi livelli di produzione pre-crisi, come si potrebbe vendere questo prodotto se nel frattempo non si mettesse in giro una quantità di liquidità aggiuntiva tale da consentire ai percettori dei redditi più bassi di poter comprare?» aggiunge. «Fornire liquidità alle imprese – come ha fatto il governo – è una condizione necessaria, ma non sufficiente». Soprattutto quando la povertà assoluta è già un fenomeno rilevante nel nostro Paese ed è destinata ad aumentare per effetto della crisi più dura dal Dopoguerra.

Sistemati a vita – Basti pensare che già prima dell’emergenza sanitaria, l’ultima indagine Istat (2018) registrava in Italia oltre 1,8 milioni di famiglie in condizioni di povertà assoluta, pari al 7% del totale, per un numero complessivo di 5 milioni di individui, cioè l’8,4% della popolazione. A queste si aggiungevano poi altre 9 milioni di persone in condizione di povertà relativa. Anche a dispetto del fatto che nel 2018, sulla base di dati Inps, il Reddito di inclusione (ReI) abbia aiutato 462mila famiglie, circa 1,3 milioni di persone, con un importo medio mensile da 296 euro (309 nel Mezzogiorno). Inoltre il futuro non è affatto roseo: per il 2020, l’Istat stima un calo dei consumi del 4,1 per cento, mentre solo a causa del lockdown di aprile prevede poco meno di 400 mila disoccupati in più. Nonostante questo scenario, per gli industriali le vecchie abitudini sono dure a morire. «Quando ci sono in ballo 50 miliardi, gli istinti più deteriori vengono a galla. Cinquanta miliardi sono due finanziarie. C’è gente che si sistema per tutta la vita. Imprese che risanano i conti. Per risanare un’impresa mediamente ci vogliono 400 milioni. Le cento più importanti imprese italiane hanno un’ipoteca sui prossimi dieci anni. Possono vivere tranquille», riprende Marani.

Del resto, lungo la nostra storia economica, gli industriali hanno sempre avuto tanto dal governo. Sin dalla loro nascita. Nel Dopoguerra, fu lo Stato attraverso le banche pubbliche, la Mediobanca di Enrico Cuccia e l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) a dar vita all’industria nazionale. Poi arrivò la stagione delle privatizzazioni con l’ingresso in scena dei “capitani coraggiosi”. Infine la fase delle delocalizzazioni selvagge in nome di una globalizzazione mal gestita. Intanto non sono mai mancati alle imprese contributi, sgravi fiscali, incentivi alla rottamazione e persino finanziamenti agevolati con il “celebre” tasso Fiat al 7% riservato al Lingotto, mentre, negli anni ’90, il resto del Paese pagava i mutui con interessi a due cifre. Tutto questo non ha impedito opportunisticamente alla Fiat di chiudere l’impianto siciliano di Termini Imerese spostando l’asse verso gli Stati Uniti. Senza che la politica romana riuscisse a dare risposte concrete al mutato scenario. Con il risultato che ancora oggi, a oltre dieci anni dall’addio di Fiat, centinaia di lavoratori dipendono dalla cassa integrazione con cui sperano di poter arrivare alla pensione. È andata meglio nella Valle dell’Ufita in Irpinia dove recentemente è ripresa la produzione dell’Industria Italiana Autobus. Ma sempre con l’aiuto della mano pubblica attraverso Invitalia e Leonardo. In Irpinia la produzione di autobus venne avviata dalla Iveco della Fiat negli anni ’70 con la Irisbus. Erano tempi d’oro per gli Agnelli con commesse statali certe per dotare le città italiane di nuovi mezzi pubblici. L’idillio però si ruppe quando la Spagna decise di varare sostanziosi incentivi pubblici per la stessa produzione a Valladolid. Amara sorte ha avuto anche l’industria del bianco. Nonostante gli incentivi per gli elettrodomestici, la Merloni ha prima in parte delocalizzato e poi ha venduto mettendo le basi per una desertificazione industriale i cui effetti sono ben noti a Pomigliano d’Arco.

Da Alitalia alla (ex) Fiat – Ma è nei trasporti e nelle infrastrutture che l’industria italiana e lo Stato hanno dato il peggio. Con fiumi di denaro destinati all’ex compagnia di bandiera Alitalia, mai realmente privata, benché privatizzata. E poi ancora la tassa sui biglietti aerei dei passeggeri che transitano in Italia per finanziare il fondo per i lavoratori del comparto aereo e gli investimenti negli scali. Inclusi quelli per gli Aeroporti di Roma, società controllata dai Benetton. E cioè in mano ad Atlantia che, attraverso Autostrade per l’Italia, ha incassato anno dopo anno incrementi pressoché automatici sui pedaggi. Senza un adeguato controllo pubblico sugli investimenti in manutenzione. Per non parlare dei contributi per “calmierare” i prezzi dei biglietti, concessi dalle Regioni alle low cost che operano sugli scali minori, in diretta concorrenza con Alitalia. Stato contro Stato con incentivi pubblici in concorrenza fra di loro. Infine, come tralasciare centinaia di milioni di aiuti indiretti che per diversi anni hanno giocato a vantaggio dell’industria cementiera che faceva capo alla famiglia Pesenti e a signori del mattone come il costruttore-editore Francesco Gaetano Caltagirone? Formalmente vanno a beneficio dei cittadini sotto il nome di ecobonus, sismabonus, ristrutturazioni, rifacimento terrazze e giardini, e soprattutto di bonus facciate, che prevede detrazioni al 90% senza alcun limite di spesa. Ma, di fatto, alimentano un giro d’affari che altrimenti non ci sarebbe per un settore in crisi profonda. Esattamente come per le opere pubbliche nella cui ripresa confida Pietro Salini con la sua Webuild.

«La mia impressione è che non ci siano più i grandi industriali. Noi abbiamo avuto Fiat, Pirelli, Olivetti, Ignis, Merloni. Ma ormai i grandi industriali privati sono quasi tutti scomparsi. Pirelli è metà cinese, la Olivetti non c’è più, la Fiat è franco-americana, Merloni è quasi andata per aria», dice Giorgio La Malfa, che ha raccontato in un libro la storia dell’industria italiana attraverso quella del banchiere Enrico Cuccia e della sua Mediobanca. «In Italia la grande industria che era per metà privata e per metà pubblica, con il capitolo Iri e Finsider, semplicemente non c’è più», spiega l’economista. «È rimasta questa miriade di imprese di media dimensione molto spesso fornitrici dell’industria tedesca che sono da un lato efficientissime, ma dall’altro anche molto deboli, nel senso che non guidano delle filiere ma fanno parte di filiere che hanno la testa dappertutto».

Il risultato è che dare oggi i soldi a queste imprese non significa assicurarsi un domani per l’industria nazionale. Che «l’industria cerchi sempre soldi sotto forma di incentivi, sgravi fiscali, credito agevolato è vero, ma è vero un po’ ovunque. Il problema italiano è che ora che dobbiamo ripartire, con chi ripartiamo?» domanda provocatoriamente La Malfa. «Se arrivano circa 175 miliardi con il Recovery fund non bisogna sapere come fare a spenderli, tema a mio parere di secondo piano. Ma piuttosto dove spenderli per trasformare il volto dell’economia italiana. Questo flusso di denaro potrebbe dar luogo a un nuovo miracolo economico come fu quello della ricostruzione con il Piano Marshall. Allora c’era una certa idea, furono costruite le autostrade con un modello incentrato sull’automobile» prosegue. «Ma oggi dove andranno questi soldi? Come verranno spesi? In mano a quali imprenditori affidiamo questi soldi? Esiste un progetto di utilizzazione di questi fondi? L’Italia deve ripartire con un disegno programmato».

Quel socialista di Trump – Dopo i tre decreti destinati a tamponare l’emergenza, anche il sindacato si aspetta che il governo metta assieme le parti sociali in tavoli tematici finalizzati a indirizzare sul lungo periodo i fondi europei in arrivo. «Puntiamo a costruire una nuova politica industriale condivisa da tutti i soggetti in campo, mettendo le basi per le successive verifiche dello stato di avanzamento dei progetti nelle diverse filiere diffuse sul territorio», spiega Massimo Brancato, responsabile nazionale settori produttivi della Cgil. Intanto Oltreoceano nella liberalissima America il governo non solo sostiene le imprese, ma versa soldi direttamente sui conti correnti dei cittadini. Nel timore di una situazione di sovrapproduzione, il presidente americano Donald Trump ha varato un poderoso pacchetto di interventi sul lato della domanda. Prevede che per quattro mesi Washington bonifichi 1.200 dollari agli americani che guadagnano fino a 75mila dollari l’anno (150 mila per le coppie) con 500 dollari addizionali per ogni figlio. Il Paese più liberale del mondo ha messo in atto una politica “socialista” senza precedenti. La ragione sta nella paura che una frenata degli acquisti trascini gli Stati Uniti nella peggiore crisi della loro storia facendo tremare il sistema capitalistico e risvegliando il fantasma della stagnazione secolare, un sistema in cui l’economia non cresce più perché la domanda stagna.

Questo scenario a tinte fosche, che per la prima volta venne evocato dall’economista Alvin Hansen sul finire della Grande Depressione degli anni ’30 ed è tornato alla ribalta nel post crac Lehman del 2008, non è certo un’esclusiva americana. Un quadro simile potrebbe delinearsi anche in Italia, dove peraltro c’è già una più elevata propensione al risparmio. Tuttavia la questione non sembra proprio preoccupare il presidente degli industriali Bonomi. Forse semplicemente perché l’Italia non è più il mercato di sbocco dell’industria che Confindustria rappresenta. «Quello che a mio avviso la Confindustria non riesce a capire è che da una situazione come quella attuale se ne esce non facendo la guerra a chi prende più soldi ma cercando di avere una posizione lungimirante» conclude Marani. «Cosa che ha avuto difficilmente e raramente la Confindustria sull’economia italiana».

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