“Quali menzogne pur di non riconoscere che questo odio è semplicemente odio” scriveva Nietzsche. L’odio è infatti il grande rimosso dalla marea di commenti, per lo più ad orientamento ecumenico – paternalistico o tesi a colpevolizzare la società inadatta, che fioccano a commento dello spietato assassinio perpetrato da Antonio de Marco nei confronti di una coppia ritenuta “troppo felice”.

Si noti che l’innesco primario del massacro pare sia avvenuto a causa di una alterata percezione della realtà laddove un rifiuto, o uno scherno, reale o forse solo percepito, avrebbero costituito quell’affronto indicibile capace di mettere in moto il poderoso progetto vendicativo che richiama i tratti rigorosi della paranoia (la personificazione di un nemico ritenuto il ricettacolo di ogni peggior nequizia, la sua eliminazione, alla maniera di Stalin che faceva eliminare chiunque a suo sentire ne infangasse il nome). È forse su questo appiglio che verrà richiesta una probabile perizia psichiatrica.

La fase due di questo evento, cioè la spietatezza, la fredda lucidità del piano di rivalsa che prevedeva la tortura della coppia, è invece ascrivibile al registro del sadismo, qua più volte descritto. Il protagonista pare infatti volesse infierire sulla coppia utilizzando una pratica che non assolve allo scopo di estorcere informazioni o confessioni dalla vittima, ma rivela piuttosto il desiderio di infliggere sofferenza per il maggior tempo possibile, rendendo l’altro un essere disumanizzato tramutabile in carne sofferente.

Ed è su questo che la mannaia del pensiero comune, spiazzato, si sta oggi abbattendo con maggior vigore cercando di negare la radice strutturalmente umana di questo agire, cercando sino alla nausea qualcosa o qualcuno che, avendo mancato nei propri fini educativi, sarebbe il responsabile principale della creazione di questi mostri che si nutrono di di invidia o di piacere sadico. Il filosofo Scheler sostiene che “più l’invidia è impotente, più essa è devastante”, descrivendo il risentimento come “un autoavvelenamento dell’anima che nasce da un’inibizione sistematica dello sfogo di certi affetti (come) la cattiveria, l’invidia, la malignità”.

Se da un lato questo non basta a giustificare un massacro (se non presupponiamo appunto un innesco, come detto, legato ad una dis-percezione della realtà) ci permette tuttavia di ragionare sui soggetti invidiosi malmostosi che sono i nostri vicini di casa, compagni di scuola, colleghi di lavoro. Contrariamente alla triste vulgata che li vede sempre e comunque come vittime di una società mancante, essi sono ruminatori di odio di libera scelta i quali non sono riusciti a dare forma alle loro aspirazioni e lucidamente, liberamente, scelgono la via del rancore.

Sono la normalità, sono vite che optano per l’odio, mentre oggi, ancora una volta angosciata da episodi di sadismo e ferocia, l’opinione pubblica e taluni maestri benpensanti evocano improbabili pezze giustificative di tipo diagnostico. Basta dunque teorie abbozzate e semplicistiche. La carica di violenza, la propensione all’odio, sono un dato oggettivo e connaturato all’essere umano (basti pensare al massacro di Willy.) A chi in radio e televisione ha già trovato le colpe dell’accaduto nella scuola, nei media o altre amenità simili, è tempo di ricordare che, clinicamente parlando, in caso di psicosi, è proprio l’età adolescenziale quella a maggior rischio di esordio.

Fuori dal campo della follia è invece tempo di prendere atto delle belluinità della natura umana. Qualunque discussione si voglia tessere, è il momento di dire basta alle storie micragnose dei “figli sazi”, dell’ “inettitudine dei genitori”, o alla sempreverde favoletta della “rete colpevole”. La natura feroce di alcuni uomini non è ascrivibile a colpe dei padri e della madri, alla “società impoverita”, o al classico trito e ritrito “ritiro dei giovani” stavolta condito con termini clinicamente infondati tipo “autismo emozionale”.

Nel film Un borghese piccolo piccolo, un magistrale Alberto Sordi incarna la figura del padre premuroso, preoccupato di dare un futuro al figlio. In nome di questo mette in moto ogni sua conoscenza per garantirgli un futuro lavorativo decente. Un amore che passa anche per dei gesti di umiliazione che Giovanni si infligge pur di spianare la strada a Mario il quale, per una beffarda fatalità, cade per errore sotto i colpi di un balordo rapinatore.

Sordi affida ciò che resta della sua vita all’odio, catturando ed incarcerando il colpevole, imprigionandolo e torturandolo davanti agli occhi della moglie. Il suo dolore diventa grido, strazio, quando il balordo muore. Muore “troppo presto”, prima che lui possa esercitarvi quella vendetta che passava per lo strazio del corpo. Per la tortura.

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