Immuni è l’app italiana di tracciamento che, come sappiamo, dovrebbe aiutarci a combattere il Covid-19. E invece pare che ci stiamo affidando ad un “morto che cammina” a livello tecnologico, stando agli impietosi numeri di diffusione che svelano come di fatto l’app stia proseguendo il suo cammino in modo a dir poco imbarazzante, incapace di convincere gli italiani sulla sua utilità. Peraltro, i numeri già bassissimi che vengono diffusi (poco più di 5 milioni) si riferiscono ai download complessivi a partire dalla messa a disposizione i primi di giugno negli store di Apple e Google, ma non tengono in considerazione il reale utilizzo dell’app da parte della popolazione italiana e i tanti casi di disinstallazione.

Insomma, un disastro spiegabile da tante ragioni, prime fra tutte la sua discutibile efficacia tecnologica e gli innegabili rischi legati al suo utilizzo massivo, se non supportato da una solida strategia sanitaria (che ad oggi non si vede). E la goffa campagna di comunicazione in atto o gli incredibili tentativi di renderla obbligatoria (in contrasto con quanto la normativa prevede) non possono nascondere la reale situazione.

Ma andiamo con ordine. Ad oggi Immuni è inciampata nel suo cammino troppe volte. Prima si è scontrata con la scarsa trasparenza nella scelta dell’applicativo, poi con problemi di protezione dei dati. Quindi, oggi è in discussione la stessa tecnologia Bluetooth che per molti esperti non solo non è in grado di tracciare con esattezza le distanze tra gli individui (generando inevitabili falsi positivi e negativi), ma è anche continuamente soggetta a vulnerabilità.

In realtà, è la stessa Immuni a essere in discussione. Solo qualche giorno fa è stato scoperto un bug che di fatto rende inutile per tantissimi utenti l’utilizzo dell’app, bloccando proprio i “controlli di esposizione” che l’applicazione effettua in background al fine di verificare se si è entrati in contatto con una persona positiva al virus. Da quanto si è incredibilmente appreso, il bug agiva indisturbato da più di dieci giorni e il Dipartimento d’Innovazione della Presidenza del Consiglio ha confermato di esserne a conoscenza, ma nessuno ha pensato nel frattempo di avvertire gli utenti, i quali, ignari del problema, ritenevano di essere “protetti”.

Insomma, si ha quasi la spiacevole sensazione che si debbano fare i conti con una imbarazzata omertà di Stato su Immuni. E infatti se ne cerca di parlare sempre meno, al fine forse di nascondere un po’ di polvere (digitale) sotto il tappeto. E invece con coraggio si dovrebbero fare i conti con tale scelta tecnologica, verificarla con attenzione, aggiornare anche adeguate verifiche sull’impatto della stessa dal punto di vista della protezione dei dati personali trattati e decidere se sia il caso di insistere ancora. Perché non sempre, come si è correttamente detto, un soluzionismo tecnologico lontano dalla realtà può rappresentare una svolta efficace per la lotta alla pandemia.

Del resto, non possiamo non chiederci se quest’app ci protegga davvero da qualcosa, considerando che gli alert ricevuti possono essere molto probabilmente dei falsi positivi (o negativi), generando così un terno al lotto tecnologico che solo un (forse insensato) uso a tappeto di tamponi potrebbe essere in grado di gestire. Ma, ammettiamolo, i tamponi ancora oggi sono un miraggio, in una distribuzione a macchia di leopardo che soffre di protocolli sanitari molto diversi da regione a regione. E non deve quindi destare stupore se l’app Immuni possa determinare inutili lockdown personali alla disperata ricerca di un agognato tampone.

Proseguendo da bug in bug (nelle scorse settimane, infatti, è stata segnalata un’altra, irrisolta vulnerabilità nell’infrastruttura di Google e Apple su cui si poggia Immuni) la sensazione è che si stia ostinatamente insistendo su una soluzione sostanzialmente inutile, non realmente supportata dal nostro Sistema Paese, al solo scopo di nascondere con una foglia di fico tecnologica un’attuale inadeguatezza a gestire il virus con strumenti analogici e digitali più adatti allo scopo.

Il virus si può combattere attraverso un corretto distanziamento, l’uso di mascherine, tracciamenti manuali associati ad ampie verifiche con tamponi (che non possono costare sul cittadino, oggi troppo spesso costretto a rivolgersi a laboratori privati, perché ancora la sanità pubblica non detiene un numero sufficiente di tamponi ed è costretta ad adottare criteri molto discrezionali di utilizzo degli stessi).

Insomma, l’app Immuni è solo la punta di un iceberg che rivela impietosamente lo stato di un Paese ancora confuso nelle sue strategie e che a livello di digitalizzazione non riesce neppure ad applicare sue normative all’avanguardia presenti nel nostro ordinamento addirittura dal 2005.

Applicando, infatti, in modo diffuso il Codice dell’amministrazione digitale, attraverso un uso sapiente di risorse tecnologiche e dati, saremmo in grado di incrociare database che dovrebbero essere in modo interoperabile già presenti nelle nostre diverse PA e quindi condivisibili ai fini di una corretta mappatura dei focolai del virus. Questa potrebbe essere un’utile arma tecnologica a nostra disposizione se avessimo lavorato davvero lungo questi anni per avere un Paese digitalmente moderno.

E invece ci affidiamo a numeri altalenanti del contagio che dipendono ogni giorno dalla cifra effettiva dei tamponi fatti in una babele di dichiarazioni incomprensibili ai più. Ed è ovvio che poi che nelle situazioni di panico qualcuno si affidi a pozioni magiche o cure omeopatiche, come l’app Immuni (da tempo) ci sta svelando purtroppo di essere.

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