A 15 anni dalla nascita di suo figlio, la lavoratrice madre “tipo” ha ancora un salario lordo inferiore del 53% rispetto a quello di una donna senza figli. Conviene partire da questo dato – un figlio come “penalità permanente” che costringe a ridurre le ore e preclude opportunità di carriera – per provare a immaginare quale sarà l’impatto del coronavirus sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. E che cosa si può fare, anche con le risorse del Recovery fund, per portare il loro tasso di occupazione dal 49% attuale al livello del resto d’Europa: sarebbe una svolta per l’intera economia italiana, con un impatto sul prodotto interno lordo stimato da Bloomberg in 88 miliardi l’anno. “Il tema cruciale è fare in modo che il lavoro delle donne non sia considerato un elemento accessorio, sacrificabile appena c’è uno choc. Ma un valore per il Paese e per le famiglie”, ragiona Alessandra Casarico, docente di Scienza delle Finanze all’università Bocconi e autrice con Salvatore Lattanzio della ricerca sui salari delle madri pubblicata su lavoce.info.

Stando ai dati Istat, la ripresa occupazionale di luglio ha riguardato quasi solo le donne. Nei mesi precedenti erano state più penalizzate rispetto agli uomini?
Su base annuale, la flessione nel tasso di occupazione maschile e femminile è la medesima. Al contrario di quanto accaduto durante la crisi del 2008, che ha visto le donne più “protette” perché meno attive nei settori più colpiti da quella recessione (manifattura, costruzioni), in questa recessione i settori in cui le donne sono impiegate in numeri maggiori (ad esempio turismo, ristorazione, servizi culturali) non sono stati risparmiati. Cassa integrazione e blocco dei licenziamenti ci impediscono di vedere appieno l’impatto della pandemia, quindi i prossimi mesi ci daranno informazioni più chiare. E’ vero che alla riapertura, il 4 maggio, sono ripartite per prime le attività in cui sono più impiegati gli uomini. D’altro canto, le donne sono più coinvolte in lavori più facilmente realizzabili a distanza, in smart working, e sono fortemente presenti nelle attività essenziali (istruzione, sanità), che non hanno subito stop.

Senza dubbio però hanno dovuto farsi carico di molto lavoro aggiuntivo in ambito famigliare.
Questo è un altro canale importante da considerare per valutare le disuguaglianze di genere. La distribuzione del carico di cura associato alla chiusura delle scuole senza dubbio è stata molto asimmetrica: pesano le norme sociali sulla divisione del lavoro domestico, che nel nostro Paese attribuiscono alla donna la responsabilità principale dei compiti di cura.

Queste “norme sociali” per cui se il bambino è a casa da scuola è la madre che deve chiedere un permesso rischiano di pesare anche sulla ripresa autunnale.
Questo è un tema forte. La grande incertezza sulla riapertura delle scuole e l’andamento dei contagi è una minaccia per il lavoro delle donne, che per diversi motivi rischiano di farne le spese proporzionalmente più degli uomini. Ma per capire se andrà così c’è un altro aspetto da tenere in considerazione: quali sono le politiche che si mettono in atto per contrastare la crisi e se sono disegnate con un occhio agli effetti differenziati per genere.

Gli interventi messi in campo finora sono stati sufficienti?
L’estensione dell’utilizzo del congedo parentale e l’uso dello smart working erano risposte necessarie e inevitabili. Ma è anche vero che alla fine i congedi sono stati chiesti più dalle mamme che dai papà. Nel medio periodo è fondamentale aumentare la disponibilità di servizi di cura per l’infanzia per garantire un equilibrio tra tempo per il lavoro e per la famiglia. Oltre ad estendere i congedi di paternità per coinvolgere di più i padri e dare uno scossone alla cultura per cui la nascita è “a carico” della madre.

Oggi quella cultura è così resistente che le dimissioni di lavoratrici madri aumentano di anno in anno: dalle 17mila del 2011 a oltre 37mila nel 2019.
Sì, l’Italia è uno dei Paesi in cui il crollo della partecipazione in corrispondenza con la nascita di un figlio è più forte. In compenso va detto che il “costo” di un figlio sul mercato del lavoro in termini di partecipazione, riduzione delle ore lavorate e retribuzioni, per le donne, è pesante anche negli altri Paesi avanzati, compresi quelli scandinavi in cui tendiamo a pensare che la situazione sia più rosea. La chiamano “child penalty” e si fa ancora sentire a 15 anni dalla maternità: stando a una nostra ricerca (su un campione di dati Inps, ndr) in Italia i salari lordi annuali delle madri di un quindicenne sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli.

Per interrompere questo circolo vizioso potrebbe essere utile una decontribuzione solo per chi assume donne? O una tassazione più bassa che aumenti il reddito netto della lavoratrice, come proposto nel 2007 da Alberto Alesina e Andrea Ichino?
Il fisco è una leva possibile. Ma la decontribuzione per le lavoratrici è già stata sperimentata (legge Fornero, ndr) e sarebbe importante valutare se sia stata efficace nel promuovere l’occupazione femminile. Quanto alla tassazione differenziata come incentivo all’offerta di lavoro, è un intervento da considerare ma anche in questo caso ne andrà verificata l’efficacia. Certo è che non bastano senza un potenziamento dei servizi di cura, che sono cruciali anche per l’uguaglianza di opportunità che promuovono tra i bambini.

Quali altre misure andrebbero adottate?
Bisogna fare in modo che da parte delle imprese ci sia effettiva trasparenza sui differenziali di salario tra uomini e donne, che sono ancora consistenti. Occorrerebbe rendere più stringenti (come in Gran Bretagna per quelle con oltre 250 dipendenti, ndr) per le aziende, non solo le big, gli obblighi di comunicazione dei dati sul gender gap nell’occupazione per livelli di carriera, con informazioni anche sui bonus e magari su altri aspetti come la durata dei congedi parentali. L’importanza delle politiche di remunerazione e carriera delle imprese è cresciuta nello spiegare il differenziale salariale di genere e quindi è importante concentrarsi su di esse quando si pensa alle misure da adottare.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Istat: “Nel secondo trimestre persi 470mila occupati tra precari e partite Iva. Più colpiti gli under 35, le donne e i lavoratori del Sud”

next
Articolo Successivo

“Il Covid mi ha tolto il lavoro. E ora ripartire è difficile”. Dalla guida turistica alla violinista, le storie delle autonome fermate dal virus

next