di Donatello D’Andrea

“Non è un nemico pubblico il ragazzo che va in spiaggia, in discoteca o al ristorante ma le migliaia di migranti che sbarcano sulle nostre coste”. Questa è una delle ultime dichiarazioni di Matteo Salvini. Premesso che queste parole hanno evidenti finalità elettorali e che l’aumento dei contagi non è esclusivo onere dei ragazzi, la frase virgolettata è utile per comprendere una delle tendenze assunte dalla politica contemporanea.

Da diversi anni, il dibattito pubblico si è progressivamente inquinato di una tendenza a deresponsabilizzare determinate categorie circa comportamenti più o meno sbagliati compiuti in un arco di tempo, o in un contesto, ben determinato. Partendo dalla comune evasione fiscale, rappresentata alcune volte come un atto di disobbedienza civile perché “si pagano troppe tasse” agli attuali assembramenti in discoteca compiuti perché “gli italiani vogliono divertirsi”.

Escluso il “benaltrismo”, altra tendenza deresponsabilizzante, insito nelle parole di Salvini, è impossibile non notare che tutta la sua propaganda politica giri attorno attorno all’evidente scarico delle coscienze. Il problema è che questo cattivo esempio, che tende ad escludere qualsiasi colpa imputabile agli italiani, ha prodotto una società che è incapace di assumersi una qualsivoglia responsabilità, permettendole di addossare qualsiasi cosa a chicchessia. Scaricare le incombenze è, ormai, all’ordine del giorno per una società che chiede diritti ma non si ricorda mai dei propri doveri, se non per addossarli allo Stato.

L’assenza di una cultura politica ha portato il buon Matteo, ma non solo lui, ad usare l’unica strategia che ha potuto assimilare nel corso degli anni (poiché non è stato il senatore leghista il primo ad usare questa tattica abietta), il resto lo hanno fatto i cittadini che, incolti e ineducati, non conoscono cosa sia la responsabilità. Una società che non sa resistere al benessere, non sa privarsi di nulla per il bene comune, avvezza al ragionamento ma predisposta al lamento.

Nel corso del tempo, questi atteggiamenti non sono stati corretti né dalla politica, che è lo specchio di una comunità che vota ciò che ritiene più simile a sé stesso (errore madornale), né tanto meno da altri protagonisti. Mancano voci autorevoli, intellettuali coraggiosi capaci di farsi ascoltare dal ceto popolare. Al contempo, però, manca soprattutto la voglia di ascoltarli. Se il benessere viene a mancare, una società non abituata alle mancanze cerca un capro espiatorio esterno.

Ieri era lo Stato, oggi sono i migranti. Chi ricopre ruoli di assoluta preminenza ha il dovere sociale di mettere da parte tendenze assurde per il bene comune. Al contrario se una tendenza entra in conflitto con la moralità, si preferisce sacrificare la seconda perché non è “popolare” o “elettoralmente appetibile”. D’altronde sentiamo sempre più spesso dire che il governo deve avere il coraggio di adottare “provvedimenti impopolari”.

Una cosa sbagliatissima perché il punto di un provvedimento non è l’essere o meno a portata di popolo, ma giusto o ingiusto. La popolarità è temporanea e il caso dell’ex ministro ne è la più grande dimostrazione. Se la politica non è in grado di farsi carico delle proprie responsabilità, non lo faranno nemmeno gli elettori. Questa, invece, dovrebbe comportarsi in modo equilibrato, educando i cittadini secondo coscienza. Ma questa, come altre costanti politiche, sono andate perdute perché si è preferito assecondare una becera, temporanea e liquida ragione elettorale.

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