di Carmelo Zaccaria

Tenere occupate le persone, farle sentire impegnate in qualche attività per riuscire a prevenire l’insorgere di potenziali tumulti e agitazioni sociali, è stato da sempre il problema principale delle classi dominanti. La dinastia Qin in Cina, per dire, fece costruire una interminabile muraglia per tenere a bada costantemente milioni di persone.

Nell’attuale crisi recessiva post Covid si teme che la presenza di una larga disponibilità di manodopera possa accrescere il rischio di ribellioni incontrollabili per cui, non potendo costruire muraglie, si cerca di correre ai ripari con sussidi, sgravi e sostegni di sopravvivenza. Si pensa a sistemazioni di ripiego. Si incentiva un lavoro sbrigativo, senza valore. Non sorprende neanche più se le nuove generazioni non si sentono più in colpa verso una società matrigna che li tiene sospesi in una precarietà permanente, rifiutando quel senso del dovere legato all’idea nobile e virtuosa del lavoro.

In assenza di un progetto di qualificazione, senza l’impulso ad una riduzione generalizzata dell’orario, permane un’esposizione a una instabilità e inconsistenza ancora più frustrante e umiliante. Si ripropongono incentivi di vantaggio verso lavori sottopagati, come il dilagante working poor, in cui si raccolgono frammentarie briciole di dignità e di salario. Una condizione lavorativa misera, forse più abbruttita di quella raccontata da Dickens nella Londra della prima rivoluzione industriale.

Nel saggio breve “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, scritto nel periodo convulso tra le due guerre mondiali, in mezzo ad una marea di disoccupati, l’economista Keynes immaginava che nel giro di pochi decenni la società umana, risolti i maggiori problemi di sussistenza, liberata dall’assillo e dalla passione morbosa del dover accumulare denaro come obiettivo principale, dopo aver raggiunto stadi elevati di benessere, si sarebbe trovata nella condizione di dover disporre di molto tempo libero e di dover pensare a come ”maneggiare meglio le arti della vita e fare meno attenzione alle attività che definiamo impegnate”.

La natura del lavoro nella società contemporanea è diventata oppressiva anche per le imprese che sono costrette, loro malgrado, ad una guerra di competizione esacerbata dentro dinamiche sempre più spietate e ingovernabili. L’imprenditore vicentino ritrovatosi dentro una macchina di terapia intensiva di un ospedale dopo aver rifiutato con una certa baldanza il ricovero e le cure previste per essere risultato positivo al Covid è forse il simbolo inconsapevole dell’orgoglio ferito di uomo di successo, sempre motivato e aggressivo, che non è abituato ad essere sopraffatto e umiliato dagli eventi della vita, concentrato e coinvolto emotivamente, con l’unico scopo del guadagno e del successo come misuratori del proprio piacere.

Sembra prevalere a volte nell’attività imprenditoriale un’assuefazione all’onnipotenza così profonda ed eccessiva, che segna il proprio intimo e porta spesso a forme latenti di depressione e dipendenza patologica di chi trova pace e godimento solo in attività strettamente connesse al suo voler comunque primeggiare, senza pause di refrigerio per la mente e per lo spirito. Una vita all’inseguimento, in cui si pretende di sentirsi ogni momento Dio, non è sostenibile.

In questi casi lavorare non “stanca”, ma uccide. L’uomo moderno, scrive Bertrand Russell “Nell’elogio dell’ozio”, di fronte al mito dell’efficienza ha perso il gusto di godere del tempo libero, mentre la convinzione che le attività auspicabili siano quelle che fruttano quattrini ha messo tutto sottosopra. Vissuto, come Keynes, nel periodo più critico di inizio Novecento egli riteneva che in questo mondo si lavora troppo, e che mali incalcolabili derivano dalla certezza che il lavoro sia cosa sana e virtuosa, “mentre la strada della felicità e anche della prosperità si trova nella diminuzione del lavoro”. Parole chiare e semplici che invitano oggi a riflettere sulla qualità del lavoro da incentivare.

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