Nel presentare la recente lettera ad Angela Merkel di alcuni sindaci europei che reclamano più investimenti a favore delle città green, Giuseppe Sala detto Beppe-slalom non si è limitato al solito nuovo mantra della sostenibilità ecologica ma ha cominciato ad infilare anche il concetto di resilienza, attribuito come insolito aggettivo a Milano. La città sarebbe, bontà sua, tra le metropoli più ‘resilienti’ e verdi. Mentre continua a sfogliare la margherita social-mediatica della ricandidatura, Sala ostenta pentimenti per la sua prima superficiale reazione al Covid e ama ripetere frasi fatte come nell’ultima intervista di luglio: “La nostra è una città che deve recuperare nell’oggi il suo dinamismo, che è la sua vera natura. In senso generale, poi, il futuro di Milano è verde. Lo dico come impegno, lo dico come convinzione, lo dico anche come utilità. A Milano lavoriamo molto sulla transizione ambientale”. Sic.

Ancor più della taumaturgica e iper-post-capitalistica “sostenibilità”, sono il dinamismo e soprattutto la resilienza tirata ad aggettivare una caratteristica milanese, a tradire le vere intenzioni del nostro Beppe-slalom. Il termine scientifico che viene dal latino ‘resiliens’ (“part. pres. di resilire, rimbalzare”, Treccani docet), ha conosciuto una curiosa sorte per l’uso estensivo e figurato relativo alle persone, da sinonimo letterario di capacità di resistenza e difesa a slogan della preparazione atletica per ultra-maratoneti e sportivi che mettono alla prova il proprio fisico all’eccesso, al limite della rottura. Applicato da Sala alla sua città, s’immagina che il concetto alluda alla capacità di rimbalzare, ovvero di saltare indietro e di ripartire, dei milanesi. Cioè, più o meno quanto è stato appena celebrato da “Un Canto per Milano”, il memoriale post-Covid andato in scena il 14 luglio al teatro Parenti, che si è giocato tutto intorno all’intuizione dell’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli di riproporre come canovaccio un testo storico-politico di Carlo Tognoli intitolato “Milano e il suo destino”.

Ora, che alle rinascite di Milano in passato abbiano fatto molto bene le radici riformiste e quel certo aplomb della borghesia “ottimista e di sinistra”, tal quale la peripatetica della canzone di Lucio Dalla, è indiscutibile: sappiamo anche bene com’è finita, dopo la stagione dei Craxi e di Pillitteri è arrivata l’onda lunga dei brianzoli e dei lumbard a travolgere tutto. Ma oggi, poi? Come si poteva ben vedere dal riassunto che ha fatto di “Un Canto per Milano” la stessa regista Andrée Ruth Shammah in tv su Rai5, al di là delle buone intenzioni la ‘meglio borghesia’ milanese che si ritrova nella odierna classe dirigente è quello che è: ha versato il suo gettone di presenza, con Sala in testa, battendo le mani riconoscente a una pattuglia d’infermiere, ma ansiosa di riprendere in qualche modo la solita routine, di correre a varare comunque il nuovo yacht, di spedire i figli con l’aereo almeno in Costa Smeralda, di continuare a fare un po’ d’affari, residuali e di relazione, protetti da una coltre d’impenetrabilità. Il declino generale della borghesia italiana ha nel particolare milanese e lombardo un concentrato unico: altro che resilienza, è l’apatia l’atteggiamento più diffuso, a partire dai cosiddetti salotti buoni.

Un acuto osservatore nota che vi è una sorta di parallelismo della post-borghesia milanese dell’epoca Covid non tanto con i ricostruttori del dopoguerra quanto proprio, in questo voltar le spalle alla realtà per rifugiarsi nei nascondigli dorati, con l’atteggiamento d’indifferenza complice che segnò gli inizi del fascismo.

Per venire a Sala e alla transizione green di cui riempie i profili online, non bastano certo le piste ciclabili appena tracciate e quelle ridipinte a nuovo, i fantomatici limiti a 30 km all’ora per le auto accanto alle nuove direttrici per le bici e i cicli vari, i tanti nuovi monopattini in sharing, per ridipingere la facciata di una città che fino a ieri svettava nelle peggiori classifiche dell’inquinamento. E certo lasciano pensare al peggio gli appelli a far uscire presto i lavoratori dallo smart-working, i piani di marketing per rilanciare il turismo a Milano, le ennesime cementificazioni nell’area già Expo e negli scali ferroviari, i progetti per San Siro e gli alberi tagliati a Città Studi per il nuovo Campus. E che dire anche solo della preparazione dei Giochi Olimpici invernali 2026 tra Milano e Cortina, un progetto che in epoca di ‘global warning’ fa quasi il paio con l’arroganza anti-ecologica mostrata da Putin nel 2014, quando ha scelto una località subtropicale come Sochi per le sue Olimpiadi della neve.

Per quel che vale, al di là dei fatti incontrovertibili del passato prossimo, qualche giorno fa c’è stata la presa di posizione ufficiale dei Verdi milanesi, che hanno annunciato di voler correre da soli e di sfilarsi da un’eventuale coalizione elettorale bis per Sala, additato come un ecologista di pura facciata. Al di là delle beghe della politica, in realtà il sospetto di molti è che Sala si stia facendo interprete, come la stessa lettera alla Merkel suggerirebbe, della preoccupazione diffusa nella Milano ‘dei dané’ che il flusso di capitali europei del Ricovery Fund in Italia finisca inevitabilmente più verso Sud, con un governo e delle leadership politiche interessate in prima battuta alla rinascita di Roma che alle sorti della fu Capitale Morale. Così che, alla fine, altro che la Milano resiliente e verde: tutta questa stagione su cui Sala ha voluto mettere la faccia rischia di far virare la città al color rosso gamberone, dopo qualche passo in avanti ecco un bel salto all’indietro.

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