È un romanzo epistolare, potete leggerlo qui, ogni sabato. L’ho intitolato “Vodka siberiana”. Sono lettere. Lei scrive al suo alter ego. E racconta. Racconta anni irripetibili, epici, paurosi. Siamo alla fine degli anni ’90. In un piccolo centro del Sud. C’ è un parco. Ci sono bevitori dell’est. Avventurieri, vagabondi, ex qualcosa, cekisti, stalinisti, criminali, malati di una ferocia chiamata: nostalgia. C’è il primo grande passaggio, quasi biblico, di carovane umane, dall’Est all’Ovest. L’Occidente pingue è impreparato. È il caos. Il parco è un teatro mirabolante di tragicità e vita sprezzante e foriera dell’archetipo umano, la vita, la morte. E poi è la storia di un amore. Non sto qui a dire che tutto si paga, che mai racconterò ciò che non si conosce.

Attraversi il grande parcheggio. Sei una donna adulta. Siedi dove di solito siede Lucia, la panca di legno, con un paio di aste divelte. Dietro di te svetta la casa dei morti, dignitoso soprammobile di ricordi deteriori, oggi è qualcosa di buono, pare, qualcosa di pubblico e irreprensibile. Accanto c’è il palazzo vittoriano, in alto, il piano della creaturina. La vita ti ha attraversato, con passi diversi dai tuoi che attraversano il grande parcheggio, sicuri, dentro ballerine dorate e con la punta consumata. La vita ti ha attraversato, proponendoti il più sublime dei dolori e spacciandolo per altro. In quel dolore hai cercato e poi trovato, non la risposta, non il significato remoto, piuttosto il metodo con cui esercitare duramente la capacità disumana dell’accettazione. Non la chiamerai pazienza. La chiamerai pazienza.

Siedi e ricordi. Superato il sentiero con il roseto, la villa color vinaccio, stile indefinito, giardino e capanna di amianto, di solito fremi. Ricordi. Piangi. Ti piace comunque farlo, ti tiene compagnia. La solitudine è la fossa più spaventosa dove guardare, e devi farlo, in cui distinguere la degradazione delle pedisseque e ignobili circostanze di sventura. Ti vengono in mente certi polacchi avvelenati dalla nostalgia vetero-comunista, l’alito incendiario, il naso spaccato da un pugno, le risse, in cortile o ai giardini poco più in là a cento metri dal palazzo della creaturina.

Siedi con liberazione, a un’età in cui ti par di aver guadagnato niente, non l’amore, consideri la tua volubilità il segno di una degenerazione. L’amore no, quello mai. Ti sei dovuta ricredere. Con lo sgomento di una sciocca ragazzina e non lo sei più.

Il club decadente era avvolto dalla penombra di una storia letta da qualche parte, era molto simile a un boudoir, o a una oppieria cinese. Avevi letto Anais Nin e la Duras. E ogni dettaglio – dicevamo – doveva conformarsi, non solo alle varie circostanziate ineluttabilità, persino alle sciocchezze o a dotte betise, nel qual caso ti piaceva abbastanza usare parole esotiche, inutili.
Betise betise.

E in casa della creaturina soltanto il professore, professore di francese, in maniche di camicia e pantaloni a coste, ti dava retta. Con lui parlavate delle cose del mondo e del Cielo. E dei naturalisti francesi e lui preparava il caffè. E c’era sempre un ubriaco che rotolava in corridoio o nell’andito del saloncino e la creaturina rideva e tutti voi ridevate alla fine dell’identico gioioso caos. Che non sapevi ancora ma avresti chiamato un giorno, persino quel caos, misericordia.

La sera, servendo ai tavoli, nel club decadente con i drappi alle finestre e la musica di Edith Piaf nel rudimentale grammofono, avevi la certezza che fossi precipitata in un nuovo tempo, ed era lontanissimo. E concorreva la vita a fartelo credere – era il più sublime dei dolori anche allora, con indosso abiti diversi cosicché tu non lo riconoscessi subito e non ne avessi paura subito – cosicché tu ne fossi temprata senza saperlo. Ma lo scranno della conoscenza che risponde al superficiale e depistante principio denominato “senza saperlo” è solo il livello più elevato e nobile della consapevolezza.

Avevi un vestito blu – certe volte – abbottonato davanti, austero e di tessuto lucido, le gambe bianche e ossute, scarpe nere, vintage, punta quadrata. Non indossavi mai le calze. Il marinaio russo del venerdì ti invitava a ballare. Tu avevi nell’indole la tragicità del kareninismo. Odiose le giovani donne come te. Sentimentali e pericolose, portatrici di guai e custodi del dolore altrui.
Guardavi il capo, che ti controllava da dietro il bancone dei liquori, annuiva, vai devi, devi ballare con il marinaio, ti faceva intendere. E tu ballavi con il marinaio russo, dopo aver poggiato il vassoio con i bicchieri da lavare sul tavolo della cucina. In cucina c’era il cuoco Azib. Morirà di alcol, pochi anni dopo. Azib rideva e scuoteva il capo perché tu dovevi ballare con il marinaio russo.

Eri ancora integra, se vogliamo. Non sapevi ancora che ogni passo contato avresti dovuto tradurre in un nuovo sacrificio e le lacrime raccolte nell’otre versarle nel nome di una gioia segreta, eppure insondabile. Allora eri integra. Tuttavia anche quel caos gioioso, la leggerezza nondimeno, la perdizione, tutto avrebbe finito per arrendersi al mistero. E il mistero un giorno lo avresti chiamato misericordia.

(continua)

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