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di Giuseppe Criaco

Il 5 luglio 1970 con il Discorso alla città da parte del sindaco Pietro Battaglia iniziavano le agitazioni a Reggio Calabria. A breve, il 14 dello stesso mese, scoppiava nelle strade reggine la “Rivolta”, e si contava già il primo morto: il ferroviere e sindacalista Bruno Labate. Iniziavano così i “Moti per Reggio Capoluogo”. Una pagina di storia italiana mai raccontata ma frettolosamente archiviata come la Rivolta dei “Boia chi molla” e con il sindacalista della Cisnal, e dopo senatore missino, Ciccio Franco emblema di quei giorni infuocati. E che vide il suo triste epilogo con l’ingresso in città dei blindati dell’esercito.

Gli anni 70, quindi, scenario di quella che fu la prima vera protesta popolare, almeno agli inizi, che di quel turbolento decennio ne preannunciò (tutti) i lutti e le devastazioni che attraversarono la penisola da Nord a Sud. Negli anni 70 il nostro Paese era una Democrazia a sovranità “limitata” per i motivi che tutti ben conosciamo. Ma soprattutto, punto di equilibrio di quella Guerra Fredda che divise il mondo in due per oltre mezzo secolo.

“Limitata” perché Piazza Fontana, la Strage di Gioia Tauro, Piazza della Loggia, l’Italicus, Ustica, la Stazione di Bologna, il Rapimento Moro non hanno mai conosciuto verità “vere” e talvolta nemmeno quelle giudiziarie. In tutto questo si inserì la “Rivolta di Reggio Calabria”. Bollata subito come “fascista”, e tanto bastò a screditarla da un punto di vista storico e morale. Il resto lo fecero una pubblicistica e una storiografia miopi, ingenue e in alcuni casi “serve” che di quella Rivolta non vollero comprenderne le ragioni, le motivazioni, la verità.

Furono questi atteggiamenti, e non altri, a consegnare Reggio Calabria ai disegni eversivi di decrepiti avventurieri, e spregiudicati personaggi che si ersero a Capipopolo grazie alla totale assenza di un governo vero e di uno Stato forte che ignorarono le vere ragioni di un popolo e di una città che chiedevano solo di essere ascoltati e non repressi.

E non ebbe nessuna importanza, per l’analisi storica e l’amor di verità, che lo stesso Giorgio Almirante fino al settembre del 70 – cioè circa tre mesi dopo la prima manifestazione di piazza – chiedesse l’energico intervento dello Stato per sedare i tumulti e ripristinare la legalità. Reggio era e rimaneva una città fascista.

E quella bugia rimase appiccicata come un marchio di infamia su Reggio e i reggini per anni. E nonostante il trascorrere del tempo “la verità”, su quei giorni, continuava a rimanere occultata in archivi blindati, in polverosi armadi, in “segrete stanze”, mentre per chi si ostinava a raccontare una Storia diversa, da quella che si cominciava a “vendere” anche sui libri di storia, non rimaneva che l’ostracismo e l’isolamento. E questo isolamento continuò per molti anni, anche dopo che erano sotto gli occhi di tutti i fallimenti di quelle promesse, le bugie di quegli anni, l’abbandono di una città.

Dopo la fine dei “Moti” ci volle coraggio a raccontarla, quella Storia. Oggi serve solo tanta, ma tanta, caparbietà affinché il tempo con il suo scorrere, la sua polvere, le sue incrostazioni non cancellino per sempre quei giorni. Per questo motivo questo contributo vuole essere solo un modo per “non dimenticare”. Per non dimenticare i tanti che sulle strade di Reggio lasciarono il proprio sangue, alcuni anche la vita. Furono loro a donare alla città una luce di dignità e orgoglio che solo una scellerata gestione politica per i successivi trent’anni ha poi appannato e imbrattato.

Ma oggi che tanti archivi si sono aperti, oggi che tanti armadi sono stati spolverati, oggi che tante stanze “segrete” non lo sono più, il ricordo di Bruno Labate, Angelo Campanella, Carmine Jaconis, Antonio Bellotti, Vincenzo Curigliano, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Cascio, Annalise Borth e Gianni Aricò ha riacceso quella luce, restituendo a Reggio quella dignità e quell’orgoglio negati e vilipesi per mezzo secolo.

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