“Deve osservarsi che il materiale probatorio acquisito in atti non è sufficiente per poter affermare la sussistenza del fumus criminis relativo all’articolo 604 bis del codice penale” ovvero associazione a delinquere finalizzata all’istigazione e all’odio razziale. Lo scrive il giudice per le indagini preliminari di Roma Zsuzsa Mendola nel decreto di sequestro preventivo notificato agli occupanti del palazzo di via Napoleone III, sede di Casapound. Su questa vicenda la procura ha avviato una indagine e nel registro degli indagati sono stati iscritti sedici nomi. Con la notifica del provvedimento la struttura passa ora nella disponibilità del tribunale. Per quanto riguarda, invece, l’eventuale programmazione dello sgombero della struttura dovrà essere decisa in seno al Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza che dovrà coordinarsi con la Procura.

Il provvedimento era stato richiesto dal pm Eugenio Albamonte, che indaga su un doppio esposto. Quello del Ministero Economia e Finanze – proprietario, attraverso l’agenzia del Demanio, del palazzo di via Napoleone III – e quello di poco precedente dell’Anpi, l’Associazione partigiani d’Italia, arrivato subito dopo le “rivolte” di quartiere di Torre Maura e Casal Bruciato fra il 2018 e il 2019.. Sull’edificio pende ancora una procedura amministrativa, avviata dal Mef e impugnata da Casapound prima al Tar e ora al Consiglio di Stato, e un’indagine della Corte dei Conti di Roma, che ipotizza un danno erariale di circa 4,3 milioni di euro.

“Il pm al fine di ricostruire la condotta di partecipazione al reato associativo – si legge nel decreto – richiama numerose vicende verificatesi nel corso degli anni, in tutto il territorio nazionale, in cui si sono verificati momenti di tensione e scontri tra estremisti di opposte fazioni politiche con condotte di per sé biasimevoli, configuranti i delitti di rissa, rapina, lesioni, ingiuria, minacce, furto, violenza privata. Ciò detto – sottolinea il gip – dalle informative relative alle suddette vicende acquisita in atti non emergono elementi probatori sufficienti a ricostruire compiutamente i singoli episodi, le modalità della condotta, le modalità di identificazione dei soggetti coinvolti e le modalità di attribuzione agli stessi della qualità di militanti di Casapound, l’oggetto del contendere fra le diverse fazioni politiche. Elementi probatori in ordine alle singole vicende non possono certamente essere tratti dagli articoli di giornale acquisiti in atti“. “Non sussistono in definitiva – conclude il gip – elementi che consentono di ricondurre ad unità le diverse vicende giudiziarie ai fini della valutazione della sussistenza del delitto di partecipazione ad un’associazione nonché di accertare se le condotte poste in essere, per quanto riprovevoli, siano espressive di ideologie o sentimenti razzisti o discriminatori, ovvero se sussista lo scopo dell’incitamento alla discriminazione nel senso anzidetto, per motivi fondati sulla qualità personale del soggetto e non invece sui suoi comportamenti sulla ritenuta assenza di condizioni di parità”.

Tra i 16 indagati per il reato di occupazione dello stabile di via Napoleone III a Roma, sede di Casapound, compaiono tra gli altri i nomi di Gianluca Iannone, leader del movimento, di Simone e Davide Di Stefano ma non quello di Andrea Antonini, vicepresidente di Casapound. “Deve ritenersi sussistente il concreto pericolo che la libera disponibilità del predetto bene da parte degli indagati – scrive il gip nel decreto – possa protrarre o ad aggravare le conseguenze del reato commesso determinando un ulteriore danno erariale di rilevante entità per lo Stato. L’ulteriore disponibilità, in capo agli indagati, dell’immobile abusivamente occupato, consentirebbe, infatti, la prosecuzione dell’attività criminosa e potrebbe aggravare le conseguenze del reato il quale ha natura permanente. Ne discende che ben può, pertanto, sottoporsi a sequestro il bene pubblico al fine di impedire il protrarsi dell’illecita occupazione del bene stesso”.

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