Io me lo ricordo ancora. Sembra una vita fa, ma me lo ricordo ancora quel periodo eroico, fino a febbraio 2020, in cui a scuola era severamente vietato l’uso del cellulare. Anzi, era severamente vietato l’uso di qualunque cosa che avesse il pulsante on oppure start.

So di persecuzioni che neanche la Gestapo. So di scuole che avevano sancito la possibilità di far consegnare i dispositivi all’ingresso in sacchettini numerati, riporli nel caveau, per poi distribuirli all’uscita. Mi ricordo la diatriba sulla legittimità del sequestro o meno del mezzo. Ricordo gli escamotage più rocamboleschi per rimanere in possesso dell’agognato oggetto.

Perché fino a febbraio, fatto salvo per quelle fortunate classi dotate di Lim, connessioni e prodigi della tecnica, lo studente doveva entrare a scuola ed ivi tornare all’uso della carta e della penna, dei papiri, delle tavolette di cera. I più virtuosi aspiravano alla lode incidendo la pietra. Ricordo cattedre su cui facevano bella mostra di sé tutti gli ultimi modelli di i-Phone, disposti in bell’ordine durante le verifiche.

Mi sentivo a metà tra una sorvegliante e una ricettatrice; ho resistito più volte alla tentazione di scambiarne uno con il mio. Unici supporti consentiti: quadernoni, libri di testo, appunti, lavagne di ardesia, gessetti. Poi, la pandemia. E nel giro di 15 giorni siamo passati da “alza la testa da quel telefono!” a “ma come, non hai ancora l’account su Meets, Hangout, Zoom, Jitsi, ciapa e dai”?

Siamo passati dall’urlo schifato: “ecco, neanche prendere due appunti, questi fanno direttamente la foto alla lavagna” a “ragazzi, vi faccio io le foto degli appunti e ve le giro sul gruppo”. Siamo passati da “senti come parlano ‘sti ragazzi, tutte ‘ste parole inglesi, signora mia l’italiano sta morendo” a “scrinsciottatevi questa clipboard, e per favore downloadatevi i file che domani vi linko le slides”.

E poi ci sono i momenti collegiali. La quarantena deve avermi lasciato strascichi psicologici importanti perché mi rendo conto di avere nostalgia anche di quelli. In fondo erano bei momenti, almeno ci si vedeva in faccia, foss’anche per urlare quelle tre-quattro ore e poi tornare a casa con lo stesso disagio acustico di un post concerto trap. Scordiamoci la composta immagine del docente che durante la riunione prende diligentemente appunti sull’agenda generosamente donata da una qualsivoglia casa editrice, qui ormai siamo lontani anni luce.

Intanto composti non si stava mai, e poi le agende non le regala più nessuno. Già prima, ai collegi docenti, era la sagra del cellulare, ammettiamolo tutti serenamente, tanto non è che anche in Parlamento siano tutti lì ad annotarsi i concetti salienti vergando in stilografica. Certo, magari sarebbe bello non giocare ad abbinare le caramelle, ma meglio quello che la rissa.

Nelle riunioni in conference call, tuttavia, siamo saliti a nuovi livelli. No, non di Candy Crash: di delirio. Visto che non si può chiacchierare, ché siamo centinaia, ma tutti costretti a chiudere il microfono, ci ritroviamo al telefono su sette chat diverse a commentare le direttive ministeriali. Prima o poi ci sbaglieremo e manderemo a monte rapporti di lavoro decennale, semplicemente scrivendo la cosa sbagliata sul gruppo whatsapp sbagliato.

A un certo punto mi sono trovata a seguire un consiglio on line al pc, con le cuffie, “smutandomi” ogni tanto per dire qualcosa, commentando per iscritto sulla chat di dipartimento, mentre con il tablet smessaggiavo ai colleghi di un’altra scuola per sapere se le informazioni collimavano. Praticamente ero come un broker di Wall Street, ma con meno soldi.

No, ecco, io vorrei solo sapere se dopo questa lunga estate calda, in cui è tutto virtuale, tutto online, tutto in videochat, tutto condiviso sui drive, se dopo questa faticosa ubriacatura multimediale poi ci diranno cosa fare. Un po’ spero di tornare nella grotta dell’eremita a fotocopiare le dispense agli alunni con la mia vecchia tessera delle fotocopie sempre esaurita. Tra parentesi, mi sa che l’ho persa, devo richiederne una nuova. Compilando l’apposito form on line, ovviamente.

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