di Carmelo Zaccaria

Joseph Grand può sembrare a prima vista un personaggio secondario, marginale del romanzo “La peste” di Albert Camus. Tuttavia rileggendo il libro, a distanza di parecchi anni, si mette meglio a fuoco, rivalutandola, la sua funzione simbolica sfuggita alla prima lettura del testo. Un rinvenimento che succede di frequente nella lettura. Calvino sosteneva che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Il libro non cambia, ma nel frattempo siamo cambiati noi, le pagine finiscono per diventare lo specchio riflesso su cui rimbalzano i nostri umori, si registrano le nostre convinzioni. Leggendo, insomma, si capisce meglio sé stessi, ci si aggiorna. I fatti raccontati nel “La Peste”, com’è noto, ruotano intorno all’improvvisa esplosione della pestilenza nella piccola cittadina di Orano, le cui terribili vicende umane possono essere facilmente correlate al diffuso malessere che circola oggi nel mondo, per la paura del contagio. La stessa incertezza, la stessa confusione, gli stessi ritardi nella comprensione della gravità del fenomeno, le colpevoli inadempienze delle autorità, come le pressanti frustrazioni dei cittadini, comprese le morti senza sepoltura e l’angoscia collettiva.

Ma torniamo a Joseph Grand, cioè il mite e scrupoloso impiegato dell’Ufficio anagrafe del Comune che è arrivato a cinquant’anni con fatica, scrive Camus, con i baffi ingialliti, lungo e curvo, magro e senza spalle. Comprava sempre abiti molto lunghi “che gli ballavano addosso” nell’illusione che sarebbero durati di più. Una presentazione iniziale poco lusinghiera.

Grand accetta con benevolenza le piccole gioie che la vita gli offre e non fa drammi se la moglie l’abbandona o se il capoufficio lo tiene in naftalina negandogli il meritato aumento di retribuzione. Non è per vigliaccheria o mancanza di dignità che rinuncia a ribellarsi ai soprusi della vita, semplicemente non trova le parole adatte per esprimere compiutamente il suo disagio. Proprio questo impaccio lo sospinge a voler imparare parole nuove, più consone, più appropriate. Giudicando la sua vita insufficiente, come tutte le persone semplici, sogna di viverne un’altra più ingegnosa, parallela a quella reale, che lo possa condurre fuori dall’ordinario.

Per dare corpo a questo desiderio inizia anche a scrivere un romanzo: “Una bella mattina del mese di Maggio, una leggiadra amazzone percorreva, in sella a un elegante giumenta saura, i viali fioriti del Bois de Boulogne”. Per anni riempie fogli con questa frase rileggendola, emendandola, valutando a fondo gli aggettivi, la punteggiatura, cercando la perfezione in ogni passaggio, come se avesse tra le mani il prologo di un capolavoro che tutti avrebbero dovuto apprezzare.

Nella sua modestia intellettuale Grand ci comunica sommessamente il piacevole conforto che si prova nello scegliere, con esattezza, quasi con rispetto, i termini giusti da utilizzare, per non declamare a vanvera o recare danno a qualcuno. Per questo la peste non lo turba e non lo distrae. In un luogo dove le persone tendono ad amplificare comportamenti smisurati ed eccentrici, Grand si comporta come uomo equilibrato e discreto, la cui quiete interiore subisce l’ingiuria della peste solo di straforo, evitando di farsi travolgere dai traumi e dalle psicosi collettive. Non snobba il male ma ne prende atto, decidendosi a combatterlo senza atteggiamenti da eroe, senza aspettarsi nessuna gloria, cosciente dei propri limiti, ma pure senza sottrarsi ai suoi obblighi morali di cittadino responsabile, senza pensare di fuggire e di arretrare di un solo passo.

Forse mille Joseph Grand, apparentemente fragili e mansueti, avrebbero potuto dominare la peste molto prima. Per questo il personaggio più indulgente del racconto diventa il simbolo del riscatto di una intera comunità. La sua guarigione, nel giorno di Natale, è il primo segnale che la peste è stata definitivamente sconfitta. In fondo è l’unico che si salva veramente, mentre gli altri muoiono o si perdono.

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