di Roberto Iannuzzi*

L’effetto domino scatenato a livello geopolitico dal Covid-19 prosegue inarrestabile. La pandemia – il cui costo complessivo è tuttora ignoto, ma già supera per dimensioni le crisi economiche dell’ultimo secolo fino alla Grande Depressione – ha provocato uno shock senza precedenti nei già instabili equilibri internazionali. Come già detto in passato, tale shock ha accelerato dinamiche già in atto, sostanzialmente avviate dalla crisi del 2008.

Tra esse figura l’inasprimento dei rapporti Usa-Cina. Già deteriorati dalla guerra commerciale lanciata dal presidente americano Donald Trump, tali rapporti sono stati ulteriormente guastati dalle recenti accuse rivolte dalla sua amministrazione contro Pechino, secondo le quali l’epidemia sarebbe conseguenza di un incidente occorso nel laboratorio di Wuhan.

Un rapporto della sicurezza di stato cinese, presentato il mese scorso alle massime autorità di Pechino, ha messo in guardia queste ultime sull’ondata di sentimenti anticinesi incoraggiata da Washington che rischia di portare le due superpotenze verso uno scontro aperto.

Si tratterebbe di un confronto senza precedenti visto che, a differenza della guerra fredda fra Usa e Unione Sovietica, avverrebbe fra due paesi profondamente integrati a livello commerciale, finanziario e perfino tecnologico, nel contesto di una globalizzazione delle catene di fornitura e del valore che non esisteva ai tempi della contrapposizione fra blocco occidentale e blocco comunista. Tale scontro, già parzialmente in atto, trae le sue origini dalla crisi del 2008 che incrinò l’egemonia unipolare americana riportando in auge il paradigma apparentemente archiviato della competizione fra grandi potenze.

Portato alle sue estreme conseguenze, esso comporterà il decoupling, cioè il divorzio economico, fra Usa e Cina, e la progressiva frammentazione e regionalizzazione dell’attuale globalizzazione. La pandemia del Covid-19 sta contribuendo enormemente a tale esito. Essa ha evidenziato l’estrema vulnerabilità di catene di fornitura globali fondate sul principio della massima efficienza economica ma non sulla ridondanza e diversificazione degli anelli della catena.

L’insorgere di nazionalismi e rischi geopolitici è destinato a rendere ancora più fragili tali catene di fornitura, spingendo probabilmente gli Stati a optare per una parziale rinazionalizzazione della produzione e per catene di fornitura regionalizzate. Ciò a sua volta potrà favorire il riemergere di blocchi geopolitici contrapposti e in competizione fra loro.

Questa tendenza sembra essere incoraggiata dall’attuale amministrazione Usa dato che, nel precedente contesto di globalizzazione illimitata, la leadership mondiale statunitense stava visibilmente perdendo terreno di fronte al gigante cinese.

Dal punto di vista dei nazionalisti nell’amministrazione Trump, cambiare le regole del gioco internazionale stava dunque diventando un’esigenza improcrastinabile. Dall’emergenza pandemica del Covid-19, tuttavia, sia Stati Uniti che Cina usciranno duramente provati: Washington deve fare i conti con una crisi sanitaria che ha già provocato più di 80.000 morti e un numero di disoccupati che potrebbe superare i 30 milioni. Il danno d’immagine per gli Usa, sia per la fallimentare gestione dell’emergenza che per l’incapacità di coordinare una reazione internazionale alle ricadute sanitarie ed economiche della pandemia, è enorme.

Dal canto suo, Pechino con la sua “diplomazia delle mascherine” non è riuscita a cancellare l’ostilità internazionale derivante dalla percezione che il virus abbia avuto origine in territorio cinese, e deve a sua volta fare i conti con milioni di disoccupati, ma anche con il crollo del commercio mondiale e con la probabile frammentazione delle catene di fornitura su cui aveva fondato il suo successo economico. L’amministrazione Trump è intenzionata a sfruttare queste debolezze per riguadagnare il terreno perduto a livello internazionale, soprattutto in Europa.

Il vecchio continente, fiaccato dal coronavirus e dalle inefficienze dell’Unione Europea nel far fronte alle ricadute economiche dell’epidemia, è diviso come non mai. Lo scorso 5 maggio, la sentenza della Corte tedesca di Karlsruhe contro il quantitative easing della Banca centrale europea ha aperto un’altra crepa nella coesione dell’Eurozona, in particolare creando una spaccatura tra Francia e Germania.

Paesi economicamente indeboliti dell’area euro, al pari della Gran Bretagna post-Brexit, potrebbero guardare oltreoceano. Ma anche verso Pechino, eventualità che Washington vuole in ogni modo scongiurare. Una parte delle élite politico-economiche dei paesi europei ha ormai interessi rilevanti anche in Asia.

Francia e Germania sono due esempi, ma il discorso vale anche per l’Italia. Gli aiuti sanitari di Pechino e i camion militari russi sulle strade italiane nella battaglia al coronavirus non sono piaciuti agli americani, così come non risultano gradite alcune tendenze, percepite come “filocinesi”, di componenti dell’attuale governo italiano.

Washington potrebbe dunque inaugurare una nuova fase di attivismo politico nel vecchio continente, sia per contenere Pechino sia per tornare a essere arbitro delle dinamiche europee. Alla luce dell’attuale debolezza statunitense, tuttavia, l’esito potrebbe non essere scontato, determinando semplicemente un inasprimento delle divisioni occidentali e trasformando il vecchio continente in terreno di scontro di una nuova e più incerta guerra fredda.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017)

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