Fino a un mese fa raccoglievano frutta e verdura nei campi, tra le province agricole di Forlì, Rimini e Ravenna. La stessa frutta che abbiamo mangiato anche durante l’emergenza Covid-19. Venivano pagati un euro l’ora i 45 lavoratori, pachistani e afgani e quasi tutti richiedenti asilo, costretti a dormire su un materasso sporco di un casolare fatiscente e sfruttati da quattro caporali, che su 250 euro di paga al mese, ne trattenevano 200 proprio per quell’alloggio. Ma nel nostro Paese lo sfruttamento non fa discriminazioni e colpisce stranieri e italiani. Come dimostra la storia di Anna, che in Puglia, lavora ogni anno nel confezionamento dell’uva da tavola. In piedi, per più di 10 ore al giorno, taglia, pesa e sigilla migliaia di scatole senza poter mai alzare lo sguardo dai nastri che le scorrono sotto gli occhi. Anna è una delle migliaia di vittime del sistema che regola le filiere produttive degli alimenti venduti nei supermercati. Basti pensare all’industria del pomodoro in Italia, dove molti lavoratori sono pagati a cottimo dai tre ai cinque euro per ogni cassa da 300 chilogrammi. In questi ultimi mesi ci siamo resi conto che queste persone non sono poi così tanto ‘invisibili’, solo che spesso si è scelto di guardare altrove. Fino a quando il sistema si è inceppato e quello dei lavoratori nei campi, ancor più quelli stranieri, è diventato un problema anche nostro. Non si è tratta più ‘solo’ delle condizioni in cui vivono o di quanto vengono pagati (poco, pochissimo), ma del fatto che frutta e verdura made in Italy sono marcite nei campi, del mancato fatturato delle aziende, dell’eventualità di non poter avere a tavola i prodotti di stagione.

DIETRO IL NODO POLITICO, UN SISTEMA MALATO – Tra lavoratori che si sono fermati per la quarantena e stranieri che sono rientrati nei Paesi di origine, secondo le associazioni delle imprese agricole per la raccolta sono venuti a mancare 200mila braccianti. Tanto è diventato un problema da dividere la politica. Sui circa 300mila stranieri impiegati nelle campagne italiane, l’Osservatorio Placido Rizzotto stima che gli irregolari siano il 35%. Eppure neanche in queste ultime settimane il sistema della filiera agroalimentare si è modificato. Tutt’altro. Perché nel periodo di crisi il settore della grande distribuzione organizzata, che già normalmente fattura all’incirca 83 miliardi di euro all’anno, ha registrato un forte incremento delle vendite e un aumento dei prezzi agli scaffali, mentre il primo anello della catena, quello dei braccianti agricoli è rimasto con ancora meno tutele. E dignità. In mezzo, il solito viaggio (con qualche ostacolo logistico in più) che compie il cibo per arrivare sulle nostre tavole. “Un viaggio che abbiamo fatto con la campagna ‘Il giusto prezzo?’ partita oltre un anno fa – spiega a ilfattoquotidiano.it Giorgia Ceccarelli, policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia – per cercare di accendere i riflettori sulle dinamiche della filiera che facilitano fenomeni come lo sfruttamento e il caporalato”. Fenomeni che riguardano anche gli italiani. “Anche se – aggiunge – per i lavoratori stranieri irregolari ci sono problemi in più, legati alla mancanza dei diritti fondamentali. Perché senza permesso di soggiorno, non possono avere un contratto e si ritrovano nei ghetti, senza né acqua né dignità. Sono bombe a orologeria”. In Italia ci vivono tra 160mila e 180mila persone, anche lavoratori regolari.

LA FILIERA – Le falle del sistema partono dai campi. Un lavoratore ha diritto alla disoccupazione solo se può contare su 102 giornate nei due anni precedenti, ma è bassa la percentuale di chi vi accede a causa del lavoro nero o grigio. È semplice: il contratto è regolare, ma l’imprenditore agricolo può denunciare la presenza di braccianti entro tre mesi. Se arriva il controllo provvede, se non arriva molto spesso soprassiede. Su 90 giorni di lavoro, capita che i datori ne dichiarino quindici, anche meno. Difficile individuare le colpe. “Quando parli con gli agricoltori – spiega la policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia – raccontano che in alcuni casi sono costretti a limitare i costi di produzione, non coperti dai prezzi troppo bassi a cui vengono acquistate frutta e verdura. Se parli con gli operatori della gdo, sono gli agricoltori che ne approfittano”. È un dato di fatto che molti piccoli operatori non sanno quello che guadagneranno fino alla fine dell’anno e che devono sostenere tutte le spese, prima di recuperare i soldi. “Il prezzo base è sempre minimo – testimonia un imprenditore – per l’uva siamo tra i 30 e i 40 centesimi al chilogrammo, mentre nei supermercati il prodotto si vende a 2,5 euro”. Le aziende conferiscono al magazzino e il prezzo si determina in funzione di quello di vendita al consumatore. Morale: se il supermercato lancia una promozione con prezzi concorrenziali a pagarla sarà l’agricoltore e, di conseguenza, chi lavora per lui nei campi.

LA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA – Oxfam si è rivolta principalmente alla gdo, perché sono i supermercati ad avere più potere in questo sistema, controllando quasi il 75% di tutto il cibo e le bevande consumate in Italia. Le loro politiche sui prezzi hanno un forte impatto su tutti i passaggi della filiera. A un anno dal lancio della campagna ‘Al Giusto Prezzo’ è stato pubblicato un nuovo rapporto con l’aggiornamento della pagella dei cinque principali supermercati italiani: Coop, Conad, Gruppo Selex, Esselunga ed Eurospin. La gdo ha fatto alcuni passi in avanti contro sfruttamento e abusi di potere, ma non basta. In testa alla classifica relativa al tema dei diritti dei lavoratori resta Coop Italia. Seguono Esselunga e Conad, poi il Gruppo Selex, mentre il coda resta Eurospin. Sono stati analizzati anche altri fattori, come le politiche adottate su trasparenza e accountability, disuguaglianze di genere e rapporto con piccoli produttori. Anche in questo caso l’azienda che guida la classifica è Coop Italia, seguita da Esselunga e, al terzo posto, da Conad e Selex. Ultima Eurospin.

LE PRATICHE SLEALI – Nel 2013 l’Antitrust ha condotto un’indagine e segnalato le pratiche con cui i distributori riuscivano a spuntare sconti e contributi che valevano in media il 24,2% del fatturato delle imprese fornitrici. Nel 2019, l’Ue ha approvato una direttiva che vieta 16 pratiche commerciali sleali. Tra queste, i pagamenti in ritardo, gli annullamenti di ordini dell’ultimo minuto e il rifiuto di fornire contratti scritti. Pratiche che comportano pressioni sui vari fornitori, con conseguenze durissime per gli anelli più deboli, piccoli agricoltori e braccianti. In Italia la Camera dei Deputati ha approvato una proposta di legge che regola le vendite sotto costo, vieta le aste al doppio ribasso e disciplina le filiere etiche. Il testo e in discussione al Senato e anticipa il recepimento della direttiva europea che dovrà completarsi entro il 2021. Nel frattempo, uno studio condotto dalla Commissione Europea sui meccanismi di due diligence nelle filiere di approvvigionamento, ha evidenziato che le misure intraprese dalle aziende per identificare e mitigare gli impatti negativi delle proprie attività sui diritti umani non sono sufficienti.

CHI CONTROLLA – La verità è che in Italia, la situazione lavorativa di migliaia di lavoratori stagionali, italiani e stranieri, non ha subìto i miglioramenti che ci si aspettava. Nel 2018, ad esempio, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha individuato 5.114 lavoratori irregolari in 7.160 ispezioni. “Anche se i supermercati firmano protocolli e si impegnano – spiega Giorgia Ceccarelli – non possono affidarsi esclusivamente agli audit di conformità, verifiche spesso annunciate giorni prima”. E la legge sul caporalato? “Interviene a fatto avvenuto, ma non è sufficiente in termini di prevenzione”. Un segnale positivo è la dichiarazione di impegno assunta da Coop, Conad e Federdistribuzione che rappresenta anche Esselunga e il Gruppo Selex: dal 1 gennaio 2021 tutti i fornitori agricoli diretti della distribuzione dovranno iscriversi alla ‘Rete del lavoro agricolo di qualità’ promossa dal Mipaaf per trovare un coordinamento nella gestione dei lavoratori, dai trasporti ad alloggi dignitosi. Molto ancora si può fare. Nessuno dei supermercati esaminati da Oxfam, per esempio, ha avviato un monitoraggio degli impatti delle proprie politiche (tempistiche di pagamento, prezzi, sconti e condizioni contrattuali) su diritti umani e sostenibilità delle filiere. “Ogni supermercato dovrebbe chiedersi se quello che paga ai fornitori e le tempistiche richieste – conclude Giorgia Ceccarelli – consentano all’azienda agricola di rispondere o non alimentino, invece, la possibilità che il piccolo imprenditore chiami il caporale perché gli porti i braccianti”. D’altronde i principi guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani (UNGPs) assegnano alle imprese la responsabilità di rispettare i diritti umani. Anche quelli dell’ultimo bracciante.

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