Negli ultimi mesi è balzato alla ribalta internazionale il problema dei mercati di animali selvatici. Non già perché freghi a qualcuno della fine che fanno questi poveri animali, quanto perché sarebbero forse responsabili della trasmissione del virus. E così non solo nessuna pietà, ma magari anche colpevolizzazione!

Ma almeno una persona che è mossa dalla pietas per gli animali e, mossa da questa pietas, da tempo ne studia il commercio, l’uccisione, l’estinzione, c’è: è la giornalista Elisabetta Corrà, collaboratrice da diversi anni del quotidiano La Stampa. Elisabetta ha pubblicato di recente un saggio dedicato specificamente a questo argomento: “Wildlife economy. Africa, Asia, Sud America. Dove e perché mangiamo specie selvatiche in estinzione”.

Sulla base di precisi studi scientifici, il saggio riporta le cause della diminuzione nel mondo delle specie animali selvatiche, in particolare quelle protette, e il loro stato attuale. Premesso che se è vero che all’alba della sua esistenza sulla Terra la nostra specie si è sfamata anche con l’uccisione delle specie selvatiche (quello che oggi chiamiamo bushmeat, che comprende mammiferi non domestici, uccelli, rettili, anfibi), è altresì indubitabile che oggi come oggi, con le trasformazioni che l’homo sapiens apporta alla Terra direttamente o indirettamente – con i disboscamenti, con l’agricoltura intensiva, con i cambiamenti climatici – approvvigionarsi di animali selvatici assume un significato ben diverso e drammatico rispetto a migliaia di anni addietro.

Questo tralasciando l’aspetto altrettanto importante quanto ovvio che essere muniti di fucile è ben diverso e ha ben altre conseguenze rispetto al cacciare con fionda o arco e frecce.

Ma quello che la giornalista sottolinea è anche la sostanziale differenza fra il bushmeat che contraddistingue Africa o Sud America da quello del Sud Est asiatico. In Africa e Sud America la caccia dei selvatici può – non necessariamente, ma può – essere collegata con motivi di sopravvivenza o supposta tale, peraltro amplificata sensibilmente dal problema della sovrappopolazione: Nigeria, Congo, Tanzania, Uganda e Kenya sono le nazioni africane più affette da una natalità incontrollata e in cui si concentra la maggior quota di predazione.

Nel Sud Est asiatico invece la predazione delle specie è quasi solo collegata con il loro commercio e il conseguente profitto. Una sensibile e, diciamo pure, odiosa diversità. Laggiù le specie selvatiche sono ricercate da un ceto benestante, soprattutto locale, sia per motivi culinari, sia, molto meno, per altri scopi, quali quelli medicinali. Tutta questa predazione avviene alla luce del sole? Purtroppo neanche questo.

“Il commercio illegale di specie protette è al quarto posto per fatturato delle imprese criminali, dopo il traffico di droga, la contraffazione e il traffico di esseri umani: il giro di dollari americani vale, secondo una stima congiunta dell’Unep e dell’Interpol, 7-23 miliardi all’anno.” E si parla nello specifico di specie protette.

Già, perché buona parte degli animali uccisi sono appunto protetti e una parte – specie quelli uccisi in Africa – vengono ammazzati addirittura all’interno di parchi nazionali. Nel mondo si preleva e si commercia di tutto: mammiferi, uccelli, anfibi, rettili, insetti. Nella sola Asia nel periodo 1998-2007 si calcola che siano stati prelevati dall’ambiente naturale qualcosa come 30 milioni di animali appartenenti a 300 specie diverse. Alcune specie che erano particolarmente rare forse oramai sono addirittura estinte.

Questo è l’uomo, sembra dire la giornalista nel suo terribile e documentato saggio: c’è da stupirsi poi delle catastrofi, c’è da stupirsi delle pandemie? Se ci fosse un dio (e magari c’è), si potrebbe pensare che esse siano un giusto castigo.

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