“I paesi scandinavi hanno deciso un altro approccio rispetto al resto del mondo: al di sopra di una certa età, over 65, non vai in terapia intensiva. In Italia e nei paesi latini questa idea che tutti i nostri suoceri, genitori, nonni e parenti sono in qualche modo sacrificabili, è inaccettabile”. In pratica, muoia chi deve morire “e facciamo l’immunità di gregge”. L’epidemiologo computazionale, Alessandro Vespignani, intervistato dall’Ansa, parla di questo “approccio che sarebbe molto impopolare altrove” che sta costando molto in termini di vite umane. “È un atteggiamento che come public health onestamente è … un po’ curioso. Comunque le loro terapie intensive sono completamente piene” dice il docente della Northeastern University di Boston.

Sono infatti quasi 3.000 le persone morte per il coronavirus in Svezia, il Paese che ha avuto l’approccio più morbido alle misure per frenare la pandemia. L’Agenzia sanitaria nazionale ha annunciato che i casi di Covid-19 nel Paese sono 23.918 e le vittime 2.941, 87 in più rispetto al giorno precedente. Un tasso, riporta il Guardian, di 291 per milione di abitanti, molto più alto delle vicine Norvegia (40 per milione), Danimarca (87 per milione) e Finlandia (45). Persino maggiore degli Stati Uniti, che il Paese con più decessi.

Il gruppo coordinato da Vespigani ha studiato tre strumenti per contenere la possibile seconda ondata. Distanziamento sociale accompagnato ad una massiccia politica di test, tracciamento dei contatti e quarantena per tutte le persone a rischio di esposizione al virus e delle loro famiglie sono le misure per controllare l’infezione da Covid-19, in modo da non compromettere il funzionamento del servizio sanitario nella fase 2 e per contenere una seconda ondata epidemica. In particolare i ricercatori hanno studiato quale fetta di popolazione dovrebbe stare in quarantena, applicando l’isolamento e il tracciamento dei contatti. Hanno così calcolato che se si riuscisse a identificare il 50% delle infezioni sintomatiche e tracciare il 40% dei loro contatti e familiari (pari al 9% delle singole persone messe in quarantena), la conseguente riduzione dei contagi permetterebbe la riapertura delle attività economiche e una gestione sostenibile del servizio sanitario.

La rimozione graduale delle restrizioni imposte dal distanziamento sociale porterebbe invece ad una seconda potente ondata, che potrebbe far collassare il sistema sanitario, se non combinata con una campagna di test delle infezioni sintomatiche, il tracciamento dei contatti e la quarantena di molti loro contatti quando possibile. Secondo i ricercatori, lo smart working per chi può continuare a farlo va incoraggiato, così come dare spazi dove le persone sintomatiche possano essere messe in isolamento. Togliere il distanziamento sociale, concludono, deve andare di pari passo con un significativo tracciamento dei contatti e una quarantena precauzionale delle persone potenzialmente esposte al virus e dei loro familiari, a cui non sarebbe quindi necessario fare il tampone. Andrebbero solo monitorati con chiamate o messaggi giornalieri per verificare la comparsa dei sintomi e dare supporto medico se necessario. Mettere solo in quarantena le famiglie di persone sintomatiche non è sufficiente a cambiare il corso dell’epidemia.

Per Vespignani “alcuni Paesi hanno agito bene per combattere la pandemia: la Germania, l’Ungheria benché in modo strano, alcune regioni dell’India. A muoversi meglio sono stati la Cina – ha proseguito Vespignani – la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore. Se parliamo di Spagna, Francia, Inghilterra e Stati Uniti siamo in una posizione un po’ confusa”.

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