In questa fase di passaggio dalla cosiddetta fase 1 alla fase 2 dell’emergenza Coronavirus che per tutti noi in Italia, al netto dei morti e di chi è ancora gravemente ammalato o sofferente, ha comportato quasi due mesi di auto-reclusione e di compressione del nostro spazio vitale, temo che possiamo cominciare a renderci conto di un’amara verità. E cioè di quanto sembri lontano e al momento impraticabile il superamento di quella “normalità” che ci ha portato esattamente dove ci troviamo ora e che è la precondizione per non riprodurre in breve tempo una situazione analoga.

Rifiutare la falsa ripartenza all’insegna del “come prima più di prima” e cioè di “un consumismo sfrenato e di un liberalismo ingiusto e predatorio” che ha il suo fondamento nel progressivo consumo di territorio e nell’annientamento dell’ambiente naturale e dei suoi abitanti sembra essere l’ultima preoccupazione di governanti, politici, rappresentanti delle categorie produttive, “autorevoli” commentatori, ospiti fissi e obsoleti di talk e approfondimenti.

Quanto più risultano evidenti le correlazioni tra i comportamenti distruttivi, predatori o eufemisticamente “scriteriati” dei cosiddetti sapiens, nei confronti dell’ambiente e delle biodiversità che lo popolano, nella genesi e nella diffusione di questa pandemia in modo non dissimile a quanto era avvenuto con Ebola e Sars, per citare le più note o recenti, tanto più prevale la volontà di rimozione – se non di sistematica negazione.

Il dibattito politico, se vogliamo nobilitarlo con una definizione di cui non sarebbe degno, e l’intero panorama mediatico con rarissime eccezioni hanno ignorato le voci che hanno posto al centro il rapporto specie umana-resto del pianeta, anche se i libri che se ne sono occupati come Spillover. L’evoluzione delle pandemie di David Quammen sono in testa alle classifiche – e quest’ultimo è praticamente introvabile.

E tanto per ricapitolare, in questo saggio narrativo – oltre alla previsione in termini puntuali e scientifici riguardo a contagio e letalità – c’è la denuncia dell’invasione demografica con relativa deforestazione e inquinamento in aree dove gli animali vivevano indisturbati e inoffensivi, prima che l’uomo li cacciasse e li appendesse nell’inferno dei wet market o li vivisezionasse in laboratorio come viene ipotizzato per gli incolpevoli pipistrelli a Wuhan; il consumo di massa di carne animale, e relative proteine, con l’estensione degli allevamenti intensivi dove questi non erano presenti; la proliferazione dei viaggi esotici con la conseguente rapidità di spostamenti di molti individui tra aree metropolitane sovrappopolate e luoghi nascosti e semi-selvaggi.

Ma quella “profetica” di Quammen non è l’unica voce lasciata accuratamente fuori dal circuito dal dibattito politico-mediatico sul Covid-19, tutto appiattito su battibecchi, allarmismi e polemiche, di ordine sanitari nella fase 1 ed economico nella fase 2.

Un altro studioso, considerato uno dei più autorevoli divulgatori scientifici a livello mondiale – Jared Diamond, premio Pulitzer nel 1998 che si è molto interessato al cambiamento climatico dal 2005 in poi, di cui non credo si sia sentito molto parlare – in un’intervista su La Lettura del Corriere del 19 aprile pone un’alternativa molto chiara e drammatica:

“O la pandemia ci apre gli occhi su quanto avviene tra la specie umana e il resto del pianeta incoraggiando un’azione più rapida ed efficace, o assorbe tutte le nostre preoccupazioni e risospinge la crisi climatica in fondo alla lista delle priorità. Penso che, inaugurata questa nuova cooperazione mondiale, capiremo che il virus non è l’unico problema del pianeta, ma il più evidente. Allora sapremo affrontare anche la crisi climatica: potrebbe essere questo il beneficio più grande del Covid-19, sebbene al costo di milioni di vite.”

Purtroppo, per quanto avvenuto finora, se risulta lucidissima l’analisi della pandemia come punta dell’iceberg della malattia del pianeta per mano dell’uomo, mi sembra che “la nuova cooperazione mondiale” a cui si fa riferimento sia ben lontana dall’essere inaugurata, vista la conflittualità anche in ambito europeo, gli scambi di accuse tra le super potenze, la totale mancanza di trasparenza della Cina e l’evidente, generalizzata tendenza allo scaricabarile.

E anche la ricorrenza del cinquantenario della Giornata della Terra al tempo del Covid-19, come ci ha ricordato Luca Mercalli su Il Fatto Quotidiano, induce ad un bilancio poco incoraggiante perché nel corso di questi 50 anni, paradossalmente e incredibilmente, “l’ambientalismo è stato via via considerato un ostacolo alla crescita economica, un fastidio per caccia, pesca, agricoltura, allevamento, deforestazione… E chi avverte del rischio ambientale è ormai un guastafeste e al limite gli si lascia un ruolo decorativo, purché non disturbi…”.

Ma a rimetterci con la sua protervia e la sua avidità alla fine è sempre l’uomo che non si interroga mai e come un bambino ammalato di onnipotenza nega l’evidenza, rimuove la morte e impaurito delega il “miracolo” di trovare la soluzione definitiva alla Scienza e alla Tecnologia, che come risolve un problema ne apre altri più complessi.

Invece come ci ha ricordato nell’Earth Day papa Francesco, la questione è di facile comprensione per tutti: “Abbiamo inquinato e depredato la natura; la terra non perdona mai”.

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