La decisione del Governo di istituire una task force per il dopo-Covid è un’occasione d’oro per tornare a interrogarsi su categorie come la “politica” e la “tecnica”.

L’idea di rivolgersi, in un momento di crisi, ai tecnici e ai competenti non è ovviamente nuova. Vi aveva fatto ricorso, nel 2013, anche il Presidente della Repubblica di allora, Giorgio Napolitano, sia pure in contingenze differenti e per altre ragioni. In quella circostanza – nella constatata, temporanea impossibilità (delle Camere) di esprimere una maggioranza di Governo – il Capo dello Stato decise di affidarsi a una “squadra” di saggi che, se non altro e perlomeno, includeva anche alcuni parlamentari. Era ancora fresca, del resto, l’esperienza dell’indimenticato “Governo tecnico” di montiana memoria. Ed è tuttora evidentissima la matrice eminentemente “tecnica” di molte tra le massime autorità europee.

Ma torniamo alla notizia. In effetti, a leggere le biografie dei componenti della task force, si resta impressionati dall’enfasi, persino ingenua, con cui sono state messe in rilievo le smisurate (e indubitabili, beninteso) competenze degli “eletti”. Per esempio, nella biografia di uno di essi, si legge: “Il suo curriculum è lungo nove pagine”. Il sito del Corriere della Sera si chiede se non sia possibile definire la squadra dei magnifici 17 un “dream team”; aggiungendo, poi, che l’obiettivo del gruppo guidato da Vittorio Colao è “un sogno grande così’”.

Ebbene, dietro a questa iniziativa (e alle reazioni entusiastiche da cui è accompagnata) si intravedono almeno un paio di questioni con cui dobbiamo cominciare a fare i conti. Da un lato, la sottovalutazione della “politica” e la sopravvalutazione della “tecnica”. Dall’altro, la confusione tra “politica” e “tecnica”.

La politica è la dimensione del decidere. La tecnica è la dimensione del fare. La politica si occupa di quali siano le scelte più giuste, più idonee, più adeguate rispetto a una “preliminare” visione del mondo, della società, del futuro e rispetto a una piattaforma di valori relativi al mondo, alla società e al futuro. La tecnica dovrebbe occuparsi di come declinare al meglio le scelte che la politica ha preventivamente compiuto. Quindi, la politica viene prima – sia in senso logico, sia in senso cronologico – rispetto alla tecnica.

Ed è per questo che la politica necessita, in una democrazia liberale quale si picca di essere (ancora) la nostra, della legittimazione popolare tramite “elezioni politiche”. La tecnica, invece, no. Al tecnico non si chiede una “investitura” elettorale giacché egli, in linea di principio, non deve portare avanti un’agenda “politica” nel senso anzidetto.

Perché ho parlato di sopravvalutazione della tecnica? Perché oggi, troppo spesso, sono proprio i politici – destinatari primi, e teoricamente anche ultimi, del tremendo compito di “decidere” – a sottostimare (o a temere?) il proprio ruolo e ad appaltarne volentieri le mansioni (e la responsabilità?) ai tecnici. Il che dipende anche dal secondo fenomeno di cui sopra: la sostanziale confusione tra i piani.

Sta sempre più sfumando il senso stesso di una “divisione” tra le due sfere, che invece era nettissima nel Novecento. Perché il Novecento è stato il secolo “politico” per eccellenza. E questo a prescindere dal fatto che il contesto politico fosse, o meno, democratico. L’aspetto paradossale dell’epoca odierna è che abbiamo conquistato la “democrazia” contro i regimi rossi e neri (definitivamente nel 1989, con il crollo del Muro di Berlino), ma stiamo gradualmente abdicando alla politica.

È come se – una volta eliminata l’escrescenza dei sistemi totalitari, e riconsegnata la politica a una grammatica e a una sintassi “democratiche” – l’Europa si fosse “arresa”. E avesse deciso di passare il testimone delle scelte (di cui la politica, svuotata di visioni e di principii, non è più capace) a dei capacissimi tecnici. I quali saranno pure dei geni, ciascuno nel suo campo, ma hanno due lacune politicamente incolmabili: non sono stati eletti da nessuno (semmai, cooptati dall’alto) e non hanno mai apertamente dichiarato quale sia l’orizzonte ideologico, valoriale, di bisogni, di interessi e di “senso” in vista (e in forza) del quale essi intendono proporre le loro soluzioni.

In realtà però, e a ben vedere, non esiste mai una tecnica “neutrale” e veramente “a-politica”. Qualunque tecnico, infatti, risponde a precisi mandanti ed è portatore di interessi, e di obiettivi, di carattere politico; semplicemente, non li esplicita. Perciò, l’idea che la tecnica si limiti a suggerire, o meglio a “dettare”, dei pratici consigli alla politica è solo una pia illusione.

Il grande rischio futuro, da cui dobbiamo guardarci, è proprio quello del tramonto definitivo della politica democratica e trasparente, se mai vi è stata. E del contemporaneo transito – inavvertito, ma letale – dalla “dettatura” alla “dittatura” di una politica invisibile mascherata da tecnica.

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