Qual è la distribuzione dei lavoratori, per età e genere, nei settori soggetti al lockdown e in quelli che non lo sono? Una ricerca mostra una prevalenza di dipendenti più giovani nelle attività non essenziali, mentre in quelle essenziali si riscontra una maggiore concentrazione di donne

In risposta alla diffusione del virus Covid-19 il governo ha adottato misure restrittive man mano crescenti culminate con il decreto dell’11 marzo 2020, che ha disposto la chiusura di una parte delle attività economiche e produttive del paese. I settori interessati dal provvedimento sono stati poi estesi e dettagliati dai successivi decreti del 22 e 25 marzo.

Alcune categorie di lavoratori sono state colpite in misura maggiore dalle misure di lockdown; capire le loro caratteristiche demografiche potrebbe fornire indicazioni sulla “fase due” della strategia di contenimento (o soppressione) del virus, più volte citata nelle conferenze stampa del capo del governo, ma ancora priva di dettagli. L’Istituto Superiore di Sanità certifica che il Covid-19 è più letale per alcuni gruppi demografici e questo ha fatto ipotizzare che, adottando appropriate precauzioni, alcuni lavoratori meno soggetti al rischio di contagio o di morte potrebbero tornare al lavoro prima di altri.

Quali sono le attività essenziali e quali no?

Ma qual è la distribuzione dei lavoratori nei settori interessati e non dal lockdown? Ovvero, come si distribuiscono i lavoratori tra attività essenziali (non soggette al lockdown) e non essenziali? Per rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato i dati di un campione delle comunicazioni obbligatorie forniti dal ministero del Lavoro. Si tratta di un sottoinsieme casuale dei contratti (a tempo determinato e indeterminato) instaurati a partire dal 2009 e ancora attivi al 2019, e dei contratti instaurati prima del 2009 e che siano stati trasformati o terminati nel 2019, di lavoratori dipendenti, domestici e operai agricoli.

Sebbene non siano una misura perfetta, questi dati riportano i codici Ateco utilizzati per la classificazione delle attività essenziali e non: possono quindi darci indicazioni su come i lavoratori si distribuiscano tra queste due categorie di attività, in base ad alcune loro caratteristiche demografiche, come l’età e il genere.

Come sono distribuiti i lavoratori tra le attività

Sulla base di questi dati, la figura 1 mostra la distribuzione per classi di età nelle attività essenziali (e quindi tuttora operative) e non essenziali (al momento chiuse), come definite dal decreto del 25 marzo. Il grafico mostra come le classi d’età più giovani siano sovra-rappresentate nelle attività non essenziali rispetto alle attività essenziali.

Questo dato in sé può non sorprendere, in quanto le attività non essenziali (soprattutto nella ristorazione e nei servizi di alloggio e turismo) impiegano forza lavoro più giovane (e precaria). È però interessante notare che i settori ancora attivi sono quelli che impiegano in misura maggiore soggetti più a rischio (le fasce più anziane della popolazione). È quindi fondamentale garantire la sicurezza dei lavoratori dal momento che chi è costretto a lavorare è anche chi è più a rischio di contrarre l’infezione.

La seconda caratteristica che analizziamo è il genere. La figura 2 riporta la distribuzione di uomini e donne nei due settori. In entrambi è maggiore la quota di uomini impiegata, ma la differenza è più netta nelle attività non essenziali. Questa differenza può essere spiegata sulla base del fatto che tra le attività essenziali rientrano alcuni settori dove è predominante la presenza femminile (per esempio, la sanità o il lavoro domestico).

Dove lavorano giovani e donne

Quando consideriamo la distribuzione congiunta per genere e età in ciascuno dei due gruppi di attività, quelle essenziali e quelle non essenziali, notiamo come le donne nelle classi di età 40-49 e 50-59 siano in percentuale maggiore rispetto agli uomini nelle attività essenziali (si veda la figura 3, sotto). In generale, fatto 100 il numero di donne che lavorano, due terzi sono coinvolte in attività al momento definite essenziali.

Questo dato impone delle considerazioni sulla gestione dei carichi di cura all’interno della famiglia. Non sono poche le storie che abbiamo letto, ascoltato o di cui abbiamo avuto esperienza diretta di famiglie che devono impegnarsi in una complicata serie di incastri di impegni lavorativi e familiari. Spesso, il congedo parentale non è abbastanza, mentre l’opzione di ricorrere a una baby-sitter potrebbe essere scartata per paura di esporsi di più al contagio.

I papà, se a casa, possono essere coinvolti in maniera maggiore nei compiti di cura: come evidenziato, la condivisione “forzata” potrebbe innescare un cambio culturale di lungo periodo, che potrebbe accelerare il processo di convergenza verso una maggiore uguaglianza di genere. È però sul breve periodo che tutti sono concentrati, oltre che in attesa di una strategia di uscita, che potrà giovarsi di un’osservazione attenta delle caratteristiche, anche demografiche, del mercato del lavoro.

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