Un dato è certo. Da un giorno all’altro, nel ventunesimo secolo, nell’era dei computer e di internet, della tecnologia spinta, della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale, ci scopriamo del tutto indifesi di fronte ad una mortale pandemia imprevista e sconosciuta che ci ricorda il Medioevo e fa vacillare le nostre certezze di uomini moderni, i nostri valori, il nostro modo di vivere quotidiano, la nostra economia, il nostro futuro.

Ci siamo ritrovati all’improvviso confinati in casa, con divieto di avvicinamento, senza poterci riunire e senza poterci allontanare, salvo che per soddisfare le necessità più elementari – salute e cibo – in un mondo dove le città sono deserte, le fabbriche e i negozi sono chiusi, e dove il solo lavoro ammesso fuori casa è quello di preminente interesse collettivo.

Oggi viviamo aggrappandoci ansiosamente alla speranza che presto questo incubo finirà e tornerà tutto come prima.
Ma è proprio questo il punto. Siamo certi che si tratta solo di una tragedia isolata e che tutto può tornare “normale”? E siamo certi che è auspicabile la “normalità” di prima?

“Ci siamo illusi di poter essere sani in un mondo malato” ha detto Papa Francesco, un grande uomo del nostro tempo. Ha ragione: questa pandemia non è un incidente ma è la migliore dimostrazione che la nostra salute dipende direttamente dalla salute degli altri e dalla salute del mondo in cui viviamo. La deforestazione, i danni di un inquinamento sempre crescente, l’uso sconsiderato della chimica e della tecnologia stanno rapidamente distruggendo migliaia di specie animali e vegetali e con loro la biodiversità.

La nostra specie diviene, quindi, sempre più quella dominante e sempre più, quindi, sarà l’obiettivo privilegiato dei vari virus che sono in grado di replicarsi e modificarsi per superare le nostre difese. Proprio mentre, come da anni ci ripete l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il crescente riscaldamento del globo ci porterà nuove pandemie tropicali. E non basterà lavarsi le mani, mettersi le mascherine e allontanarsi di un metro. Ma non basterà neppure un vaccino sempre più difficile da creare. Se c’è una lezione che dobbiamo imparare in fretta da questa pandemia è che dobbiamo iniziare a combatterne le cause, non le conseguenze.

E dobbiamo farlo subito, nel momento in cui destiniamo centinaia di miliardi per ricostituire la nostra economia e possiamo propiziare, quindi, una riconversione del tipo di sviluppo oggi dominante. Ma questo potremo farlo solo se lo capirà, e in fretta, la politica. Come ci ricorda l’Enciclica “Laudato si”, “non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale”.

Tanto più che ”una strategia di cambiamento reale esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere capace di assumere questa sfida”, rifuggendo da una “concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese e degli individui”; così come finora è avvenuto.

In sostanza, per evitare nuove, insostenibili “emergenze”, occorre un ritorno alla politica vera che inizi a ripensare il senso dello sviluppo vero e sostituisca le scelte oggi operate e imposte dall’economia di mercato con quelle mirate al soddisfacimento dei bisogni veri degli individui in un quadro di pacifica convivenza tra l’uomo e l’ambiente e tra uomo ed uomo. Occorre, cioè, ripartire da beni e bisogni veri e fondamentali come la salute, l’ambiente, la biodiversità, la cultura, l’eguaglianza.

Nella consapevolezza che un “bene” non deve essere necessariamente “utile” o monetizzabile: un parco, una barriera corallina o un ghiacciaio, per l’uomo hanno un valore unico e immensurabile di per sé, a prescindere dalla circostanza se creano occupazione, fanno “fare soldi” o accrescono il Pil. E così è per un tramonto, per un paesaggio, per una emozione, per lo “stare insieme” che oggi ci è negato. Insomma occorre passare dalla quantità alla qualità, dall’avere all’essere. E su questi valori riprogrammare la nostra società e la nostra economia.

Del resto, proprio l’esperienza di questi giorni dimostra che, se necessario, molte produzioni industriali possono essere agevolmente riconvertite a obiettivi di tutela della salute. L’importante è, dunque, frenare le scelte aziendali troppo spesso oggi finalizzate solo al massimo profitto attraverso la creazione di consumatori in batteria, sostituendole con scelte più rispettose del bene comune e dei bisogni fondamentali dell’individuo.

Si porrà così un freno anche ai pericoli per la democrazia connessi con un aumento intollerabile delle diseguaglianze, prodotto inevitabilmente a carico dei più deboli da una pandemia come quella che stiamo vivendo e da quelle prossime future.

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