Alle 10 in punto lungo la banchina della stazione di Porta Genova non c’è nessuno. Sui vagoni della linea verde viaggiano in otto. Uno in più da Sant’Agostino in poi, un altro sale a Sant’Ambrogio, due a Cadorna e Lanza. Zero a Garibaldi, solitamente crocevia di migliaia di vite della Milano che andava a cento all’ora e oggi vive sospesa nel silenzio. Il calo dei passeggeri nella metropolitana è una fotografia nitida del rallentamento della città: 70mila al giorno rispetto agli 1,4 milioni trasportati normalmente. Meno -95%. Appena fuori dalle scale mobili della fermata Gioia resistono le locandine del Bergamo Jazz Festival in programma dal 15 al 22 marzo. Una settimana in cui tra capoluogo e provincia, nella Bergamasca, sono stati scoperti 2.800 casi di coronavirus e i decessi ufficiali sono stati centinaia. Poco dopo è arrivata l’ondata anche in città, con oltre mille morti nello scorcio finale del mese.

La piazza simbolo svuotata. E la torre Unicredit quasi deserta
È mercoledì mattina e lungo le viuzze della Biblioteca degli alberi scodinzolano tre cani con i padroni e un runner, imperterrito, scappa via verso il Bosco Verticale. I prati che in primavera ospitano le prime pause pranzo al sole e le aree giochi per i bambini sono delimitate con il nastro rosso e bianco della Polizia Locale, come fossero una scena del crimine. Piazza Gae Aulenti, simbolo della Milano che negli ultimi dieci anni si è rifatta il trucco, è vuota. Sono sbarrati tutti i grattacieli. La torre Unicredit con il suo pennacchio è quasi deserta. “A regime qui lavorano più di 4mila dipendenti. Oggi la presenza è ben sotto al 10%”, dice la banca assicurando che a chi entra in sede o negli altri edifici di direzione viene misurata precauzionalmente la temperatura con il termoscanner. Nelle poche filiali rimaste aperte – ne sono state chiuse 33 su 55 – si lavora su turni e i clienti entrano solo su appuntamento. Sarà qui e nelle altre sedi dei grandi istituti bancari che si giocherà una fetta della ripartenza di Milano e, dietro alla locomotiva, del resto dell’Italia. “La sfida è sostenere le piccole e medie imprese, che sono il tessuto economico e produttivo e la base della ricchezza del Paese rappresentando il 60-70% dei posti di lavoro – spiegano da Unicredit – E devono quindi essere messe in condizione di attraversare questa fase di secca, anche per tutelare l’occupazione”. Che sarà la prossima preoccupazione della Milano che “fà e desfà l’è tut un laurà”. Tra turismo dall’estero che, con ogni probabilità, resterà ancorato al palo a lungo e un pezzo di città che ruota attorno a servizi di ristorazione ed eventi. Il Salone del Mobile, principe degli appuntamenti milanesi, è stato cancellato e nei prossimi mesi sarà difficile tenere insieme le ‘Week’ con le misure anti-Covid.

Gli ultimi ora visibili ma sempre più soli (e in aumento)
Senza contare la vita notturna, caratteristica e altro motore della città. Tra corso Como e largo La Foppa, una delle zone più frequentate dello struscio serale, solo Eataly resiste alla chiusura. In piazza Venticinque Aprile non c’è nessuno se non quattro clochard e i loro fagotti all’ombra di Porta Garibaldi. Nella quotidianità perduta di Milano erano gli invisibili, invece, insieme ai rider che sfrecciano lungo le strade deserte, oggi sono più visibili e soli che mai. Si è fermato Pane Quotidiano, punto di riferimento per centinaia di poveri ogni giorno, mentre l’Opera San Francesco ha chiuso la mensa di corso Concordia e distribuisce circa 2.400 pasti in un sacchetto invitando a consumarli altrove. E le richieste aumentano, come testimonia il +30% di pacchi di viveri offerti dalla Caritas ambrosiana. La crisi, evidentemente, sta toccando anche chi fino a poche settimane fa riusciva a mettere un piatto in tavola senza essere costretto a chiedere. La sfida del Comune, per ora, è riuscire ad assistere tutti con i 7,2 milioni messi a disposizione del governo per i buoni spesa, grazie alle donazioni dei privati e al lavoro della rete di associazioni solidali. Poi verrà la scommessa cruciale: far coesistere e avvicinare la Milano al di là dei viali ora vuoti delle circonvallazioni con quella più vicina alla cerchia delle mura.

Pubblicità e orologi, la città ferma al 9 marzo
Puntando verso Brera, gli unici rumori sono le sirene delle ambulanze, lo sferragliare dei tram e quello di una perpetua che passa l’aspiravolvere sui marmi della chiesa del Carmine. La città si è fermata nella notte tra il 7 e l’8 marzo. Lo raccontano vecchie pubblicità, il cartellone che annuncia il concerto mai nato di Brunori Sas in programma il 13 marzo al Forum di Assago e l’orologio a led di un negozio di articoli sportivi che segna le 9.58 quando mancano 2 minuti alle 11. Come se l’ora legale non fosse mai tornata. Il consueto brulicare tra negozi di design e scintillanti locali turistici si è trasformato in code mute fuori da un forno e davanti al lampeggiare delle luci verdi delle farmacie. Quella all’angolo con via Pontaccio ha la serranda abbassata: “Battenti chiusi, servizio attivo”, hanno scritto sui cartelli all’esterno con i quali annunciano che le mascherine ci sono. Fanno 2,50 euro l’una per quelle chirurgiche usa e getta. La Milano che sa cavalcare le mode ha trovato il suo pertugio anche nell’emergenza.

La moda ibernata. Capasa: “Danni enormi”
Quella dei lustrini e dell’abito all’ultimo grido è invece ibernata. Da corso Buenos Aires a via Montenapoleone le uniche buste piene sono quelle della spesa nei supermercati. Idem nel cuore di una corso Vittorio Emanuele spettrale, dove un senzatetto ha piantato una tenda verde sotto il porticato a due passi da piazza San Babila: le grandi griffe hanno vetrine già quasi demodé, tra ultimi fuoritutto marzolini e primi capi primaverili. “In città ci sono 800 showroom che rappresentano 3mila brand”, fa di conto Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda. Dietro le vetrine immobili, c’è un motore fermo. “Parliamo della seconda industria italiana, che da sola rappresenta il 41% della produzione europea – spiega a Ilfattoquotidiano.it – Una catena chiusa che ha già perse l’ultima coda della produzione primavera-estate. Non siamo riusciti a mandare la merce nei Paesi orientali, dove il mercato sta ricominciando. Un danno enorme”. Anche perché sono diversi gli appuntamenti mancati: “Le collezioni crociera di maggio sono ormai andate. La Fashion Week uomo di giugno è stata spostata a settembre – elenca Capasa – E abbiamo posticipato all’autunno una round table sulla sostenibilità che solitamente si tiene a maggio”. Il settore chiede di tutelare innanzitutto le piccole aziende e di fare ognuno la propria parte: “Imprenditori, governo e Unione Europea remino nella stessa direzione, altrimenti non se ne esce – ragiona Capasa – E permettiamo di pagare le imposte direttamente a fine anno o impicchiamo chi è già a corto di liquidità”.

Senza Salone del Mobile e fiere, il lamento degli albergatori
Problemi che il virus ha replicato di settore in settore. “La situazione è tirata, speriamo che il mercato italiano riparta presto. L’estero resterà una chimera fino agli ultimi mesi dell’anno”, lamenta Maurizio Naro di Federalberghi. Il comparto a Milano conta 400 strutture con 35mila camere per un totale di 55mila posti letto e 12mila occupati diretti, ai quali bisogna aggiungere i servizi in outsourcing, dalla ristorazione alle pulizie e alle manutenzioni. “Gli studi dei consulenti ci hanno prospettato diversi scenari. Tutto concordano in un ritorno, forse, al segno più nel 2021. Ci aspettiamo un tasso di occupazione delle camere molto basso nei prossimi 7-8 mesi”. Senza Salone del Mobile, secondo Federalberghi, sono già scomparsi circa 120 milioni di euro di fatturato. A marzo sono evaporati altri 100 milioni. “E parliamo solo di camere. Se aggiungiamo ristorazione e convegni la cifra lievita attorno ai 350 milioni. Sono soldi che non recupereremo”, dice Naro spiegando che il coronavirus ha fatto tabula rasa di congressi e fiere già programmati fino a luglio. “C’è la speranza di vedere delle conferme da settembre. E poi bisognerà capire cosa rimarrà in tasca ad aziende e famiglie per viaggi di lavoro e di piacere. Un punto, quest’ultimo, sul quale ci siamo già fatti sentire”. L’idea degli albergatori è quella di “permettere di detrarre dalla dichiarazione dei redditi le vacanze fatte in Italia, facendo riscoprire il nostro Paese e aiutando le imprese senza ossigeno”. Solo attorno al Duomo sono una trentina ad aver sbarrato le porte.

Il Duomo deserto tra militari e piccioni
“Non siamo fatti per fermarci, ma solo per ripartire ancora più forti”, si legge sulle vetrine della vicina Rinascente che, alla vigilia dell’inaugurazione nel 1917, venne distrutta da un incendio e oggi è ancora lì. La piazza di fronte alla basilica è presidiata da poliziotti, carabinieri e militari. Sfreccia qualche corriere, volano i piccioni. Dentro la Galleria Vittorio Emanuele rimbomba ogni passo e davanti a Palazzo Marino due agenti della Polizia Locale ricordano a un cittadino in cerca di informazioni che non è proprio possibile entrare nella sede del Comune. Le camionette dell’Esercito sono accanto alle barriere di cemento, posizionate agli accessi di piazza Duomo nell’agosto 2017 dopo gli attentati di Barcellona. Dovevano servire a riparare dallo spettro del terrorismo, una minaccia che oggi appare lontana di fronte al coronavirus che Milano ha visto arrivare e non è riuscita a stoppare.

I pubblici esercizi e la paura per il turismo estero in calo
Lungo via Torino, davanti alle colonne di San Lorenzo e risalendo corso di Porta Ticinese #Milanononsiferma sembra ieri. Ora c’è una mamma a spasso con il figlio per una boccata d’aria e due finanzieri che chiedono l’autocertificazione a quei pochi che passano. Pokè house, ristoranti, hamburgerie e pizzerie si arrangiano come possono con il delivery. Un palliativo. “Prevediamo una perdita di fatturato nei pubblici esercizi di circa il 40 per cento nel corso del 2020”, stima Lino Stoppani, presidente di Fipe-Confcommercio. “Circa 5mila posti di lavoro aggiuntivi che il settore genera nel periodo febbraio-giugno sono già andati in fumo e se la contrazione sarà confermata sono a rischio altre 20mila persone”, aggiunge. Il comparto a Milano conta circa 9mila attività, spiega Stoppani, che ogni settimana producono un fatturato di “oltre 100 milioni” e un valore aggiunto di circa 88. “Il cibo, dopo l’arte, è la maggiore attrazione turistica del Paese – aggiunge – e il primo per il quale si torna in Italia una seconda volta. Se impoveriamo l’offerta, nel lungo periodo rischiamo di perdere attrattività. Chiediamo tutele perché sarà già difficile sopportare nei prossimi mesi l’assenza degli stranieri”. A Milano, dati Istat, gli arrivi dall’estero sono stati 12,1 milioni nel 2018 rappresentando il 64,9% dei turisti in città.

I Navigli immobili e i ristoratori al servizio della trincea
La scorsa estate passeggiavano a frotte tra la Darsena e il Naviglio Grande, dove prima del decreto una catena di vinerie stava per aprire un nuovo punto vendita. L’opening soon sulla facciata resterà lì per un po’ e lo stesso faranno gli ombrelloni chiusi delle altre decine di locali affollati fino ai primi di marzo. In questa e in altre zone, da Porta Romana a Isola, gli ultimi cinque anni sono stati un fiorire di inaugurazioni e ristrutturazioni sulla spinta di Expo 2015. Spesso giovani imprenditori, che ora si reinventano. Alberto Cartasegna, ceo e fondatore di miscusi, cinque locali in città e 300 dipendenti in Italia, ha chiuso prima che il governo imponesse la serrata. “Abbiamo lanciato la miscusi bottega, un negozio virtuale nel quale poter acquistare la pasta ed i condimenti per poi replicare a casa propria i piatti e siamo attivi con il delivery. Quella che verrà sarà una Milano diversa, mi auguro più attenta alle imprese e ai piccoli negozi”, spiega. Coinvolgimento viene chiesto anche da Stefano Saturnino, fondatore di Pizzium, 17 locali in città e 8 aperture previste nel 2020: “Sarà necessario sedersi a un tavolo con la Regione, che pare curerà la ripartenza. Milano è da sempre spinta da imprenditori preparati e sicuramente, in un modo o nell’altro, tornerà a essere la città che tutti conosciamo, a patto che queste persone vengano davvero coinvolte nella ricostruzione”. Nel frattempo entrambi, con altri 8 ristoratori, da metà marzo consegnano pasti gratuiti a medici e infermieri negli ospedali. Un servizio alla città. Silenziosamente, da settimane, ne svolgeva uno simile il tassista Giuseppe Allegri, 63 anni, portando i sanitari dalla zona di Famagosta al San Paolo. Poi si è ammalato e in quello stesso ospedale è deceduto. Come lui altre centinaia di contagiati da Niguarda a Lorenteggio negli ultimi dieci giorni di marzo. Nel silenzio di una Milano sospesa.

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