L’altra sera mentre guardavo la magnifica serata di Rai 1 sulla Musica che unisce non ho potuto fare a meno di ripensare a una questione che in questi giorni è tornata prepotentemente di attualità. E’ accaduto grazie alla proposta avanzata alla Rai da Pupi Avati, che ha avuto un vasto apprezzamento e ha stimolato alcune considerazioni altrettanto interessanti di Renzo Arbore apparse su La Stampa.

Ora, sia chiaro che tutto quello che Avati e Arbore hanno scritto mi pare molto bello. Si tratta di due artisti per i quali nutro più che grande stima, una vera passione (e la stima credo sia anche reciproca). Quello che mi ha preoccupato è la lettura riduttiva che ne è derivata sia per le logiche semplificatorie della titolazione giornalistica sia per la ricaduta inevitabilmente banalizzante sui social. Di titolo in titolo, di post in post le richieste di Arbore e Avati sono diventate uno slogan: “Più cultura (Avati), più arte (Arbore) nella tv pubblica, approfittiamo della pandemia per cambiare i palinsesti”.

E quali sarebbero i contenuti culturali e artistici da proporre? Il teatro, il cinema, la musica, il jazz, il balletto, la pittura, la letteratura, la lirica, il documentario. Ecco, detto così non mi pare che si risolva il problema del degrado della produzione e del consumo televisivo. Al di là del timore di una fuga del pubblico verso una concorrenza che – lo ha dimostrato proprio i questi giorni – non si fa scrupoli a giocare al ribasso, io credo che il problema non sia quello dei contenuti, ma dei modi, non del “cosa” ma del “come”.

Una tv che abbia a cuore il livello artistico e culturale non è una tv che propone solo le trasmissioni di Alberto Angela, che ci parla della mostra di Raffaello o della prima della Scala. E’ una tv che si muove tra funzioni e generi diversi ma lo fa sempre con la stessa alta qualità, con un linguaggio curato, adeguato alla natura dell’oggetto di cui parla.

E’ una tv che quando fa informazione fa un vero approfondimento dei problemi e non un passerella per i politici; una tv che quando fa intrattenimento esibisce il talento degli artisti e non le ridicole velleità della gente comune; una tv che rinuncia alla scorciatoia per cui basta mostrare i drammi familiari, gli amori felici e infelici, le agnizioni e gli imbarazzi per essere testimone della realtà e regalare emozioni, perché l’emozione è un’altra cosa.

E’ una tv che tratta tutto il materiale che manda in onda – lo sport come la fiction, il quiz come il programma comico – con la stessa qualità di scrittura televisiva, come se fosse sempre la prima della Scala. Una tv di autori e di registi, in cui l’originalità dei progetti e delle immagini conta più dell’economicità dei format e dell’appartenenza dei personaggi alle varie “scuderie”.

Non è questione di alto e basso e lo sanno benissimo Arbore e Avati, che i loro capolavori li hanno fatti maneggiando materiali non certo sublimi. Ecco, pensavo a queste cose, vedendo e gustandomi Musica che unisce e pensavo anche alle obiezioni che si solleverebbero al mio discorso: “bravo tu! ma lì ci sono gli artisti che hanno aderito per solidarietà, eccezionalmente”.

Certo ci sono gli artisti, ma prima di loro c’è un’idea, c’è un progetto, c’è un conduttore che non ha bisogno di esibirsi (Vincenzo Mollica e chi se no?), c’è una regia (Duccio Forzano e chi se no?), c’è una concezione di televisione come comunità civile (forse la nuova impronta di Stefano Coletta). E queste sono cose che non hanno carattere di eccezionalità, che potrebbero restare sempre alla base della programmazione, per realizzare la televisione auspicata da Avati e Arbore.

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