I miei due lettori sanno che sono un interprete e traduttore giurato con diversi anni di esperienza e una Laurea Magistrale presso la Sslmit di Trieste. Chi ama le lingue e questo mestiere sa che essere ammessi alla laurea magistrale in Interpretazione di Conferenza della Scuola Interpreti di Trieste non è semplicissimo, ma non lo dico per vantarmi – visto che siamo una ventina ogni anno a riuscirci e anche tra chi riesce poi non tutti, per motivi che possono essere i più vari e non sempre legati alle capacità personali, finiscono per fare questo come mestiere.

Lo scrivo perché il mio percorso è stato ancora più tortuoso e anomalo e connotato da una certa caparbietà e determinazione, che mi contraddistingue quando si tratta di raggiungere un obiettivo.

Percorso anomalo perché contrariamente alla quasi totalità dei miei colleghi (o colleghe, vista la stragrande maggioranza di donne) di corso a Trieste io non venivo da una Laurea triennale in Lingue ma da una in Scienze Politiche, con tutti i pro e i contro che ciò può comportare. Inoltre non ho fatto domanda di ammissione alla magistrale subito dopo aver conseguito la triennale, ma ho lasciato passare alcuni anni tra le due, andando a vivere in Francia.

La passione per le lingue mi ha accompagnato sin da piccolo. Fu in Francia che ci fu il “colpo di fulmine” per il mestiere di interprete, quando, durante una visita al Parlamento Europeo di Strasburgo, fui letteralmente “colpito” mentre ascoltavo gli interpreti tradurre simultaneamente gli oratori della plenaria, con una maestria impressionante, e ciò indipendentemente dal canale della lingua che scegliessi.

Fu così che un giorno tra maggio e giugno di qualche anno fa salii dal sud della Francia dove vivevo in treno fino a Parigi per provare a passare il test di ammissione di una scuola di interpretazione considerata in Francia ancora oggi tra le più autorevoli, e superai la selezione.

Il primo anno fu molto intenso e i professori molto esigenti e severi, facevamo solo interpretazione consecutiva (con appunti), mentre la simultanea era riservata al secondo anno. Le ore di studio erano tante, e mi portarono a conoscere anche le famose chambres de bonne: camerette minuscole sull’attico e sul retro di palazzi eleganti dei quartieri più chic di Parigi, dove una volta dormivano le domestiche (les bonnes) con scala separata e un bagno condiviso per tutti sul piano, dove un compagno italiano del secondo anno mi invitava generosamente a esercitarci insieme ogni settimana aspettandomi col bicchier d’acqua dopo aver fatto i sette piani senza ascensore.

La retta da pagare era anch’essa molto alta ma l’obiettivo era importante e la cosa mi piaceva e appassionava sempre di più. Eravamo circa venti di diverse nazionalità e lingue, anche se la maggior parte erano comunque francesi ma divisi per lingua, in Francese>Italiano e Inglese>Italiano ci ritrovavamo ad essere in due/tre e l’unica occasione di riunirci tutti insieme erano i corsi di economia o le serate insieme ai più compagnoni.

Alla fine dell’anno accademico arrivarono gli esami e, con questi, dei risultati che ci lasciarono quasi tutti basiti. Su circa venti studenti, i due terzi di noi non passava al secondo anno. Com’era possibile? Si erano sbagliati in modo così plateale all’esame di ammissione, ci eravamo trasformati da interpreti in erba a incapaci durante l’anno o il motivo era un altro? L’amarezza era ancora più grande alla luce dell’energia spesa, dell’investimento fatto e dei sogni che sembravano infrangersi improvvisamente e senza alcuna avvisaglia da parte dei professori nel corso dell’anno.

A proposito di professori, questi erano quasi tutti interpreti di conferenza di alto livello (parliamo di missioni con Presidenti, Ministri, Amministratori Delegati di multinazionali…) che si prestavano all’insegnamento e che spesso annullavano o rimandavano le lezioni per missioni di interpretazione che passavano prima dell’insegnamento.

Non vi nascondo che vedendo alcuni colleghi del primo anno di altre lingue e non meno bravi di me non promossi al secondo anno – o, ancor peggio, falciati al secondo anno ad un passo dal diploma (come il mio amico italiano di cui sopra) – era difficile non pensar male. In effetti la professoressa, in leggero conflitto di interessi, stava selezionando quello che sarebbe stato un futuro collega nella sua lingua di lavoro, e addirittura un giorno una prof. mi parlò di “inviti” a non promuovere determinate persone, perché altrimenti “queste rubano il lavoro”. Inizialmente non sapevo se credere o meno a queste cose, poi, alla luce degli eventi, diventa difficile continuare ad avere fiducia in un contesto del genere.

Per chiarirmi le idee chiesi un appuntamento alla professoressa di interpretazione che sembrava più ostile e lei mi scoraggiò persino dal ripetere l’anno perché “tanto con quella combinazione linguistica non troverai lavoro”. Eppure avevo la stessa combinazione (italiano, francese, inglese) all’esame di ammissione… possibile che in meno di un anno il mercato di lavoro fosse stato stravolto? O era già così – e allora perché non dirlo subito? Ancora una volta, a pensar male vengono in mente le diverse migliaia di euro versate alla scuola dagli studenti.

A quel punto la voglia di continuare su questa strada l’avevano spenta in quasi tutti noi, convinti che non fosse un mestiere per noi. Qualcosa però mi diceva di non ascoltare questi spassionati consigli della professoressa, che di buono non sembravano avere proprio nulla. Il timore di un’altra delusione c’era anche, ma sapete quando il vostro istinto vi dice di andare per una strada? Io ho voluto insistere. Ho contattato interpreti famosi come Paolo Maria Noseda (noto in tv per Che Tempo che Fa) e professori di scuole interpreti lontane da Parigi come l’Eti di Ginevra o appunto la Sslmit di Trieste e Forlì, e ascoltandoli mi sono convinto di proseguire.

Il seguito lo conoscete: ho superato gli esami di ammissione e due anni di formazione intensa e di altissimo livello, sia in simultanea che in consecutiva, insieme a compagne/i di studio di primo livello e con professori severi, esigenti, validi, esperti, e rispettosi nei confronti degli studenti. Anche a Trieste i docenti erano praticamente quasi tutti interpreti di professione e di alto livello, ma contrariamente a quella scuola di Parigi, forse anche grazia alla bora, chissà, nell’aria non c’era tensione negativa, voglia di far fuori potenziali avversari o concorrenti futuri, ma solo voglia di trasmettere un sapere in modo sano e in totale buona fede.

Da allora, la cassandra parigina è stata smentita. Ho avuto l’onore di fare da interprete per la Fao, Agenzia delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura per diversi mesi in Marocco, per clienti sparsi su diversi continenti nei settori più disparati: privati, piccole e medie imprese, multinazionali del campo della difesa, registi, per conferenze e assemblee generali, compagnie aeree, ospedali. Sono stato chiamato ad interpretare per emergenze ambientali, soccorso stradale, incontri di lavoro, interrogatori di polizia, riunioni internazionali su epidemie come l’Ebola

E quando voglio passare dall’orale allo scritto mi occupo di traduzioni (giurate e non) per manuali, contratti, accordi commerciali, sentenze di divorzio, atti di nascita, lauree, atti notarili, casellari giudiziali e molto altro ancora.

Morale della favola? Quando si ha un sogno nella vita bisogna andare sempre fino in fondo per provare a realizzarlo e ascoltare il proprio istinto. Non lasciate che nessuno vi faccia dubitare delle vostre capacità e potenzialità.

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