L’allarme era stato dato da giorni, ma ora parlano i numeri: duemila operatori sanitari – tra medici, infermieri – sono già stati contagiati dal coronavirus sul luogo di lavoro. “Sono circa il 10-12% del totale dei positivi – spiega Carlo Parlermo, segretario del sindacato medico Anaao Assomed – Ma quello che ci preoccupa soprattutto è che non vengono effettuati i tamponi agli operatori che siano stati a contatto con i soggetti Covid-19 finché non mostrano i sintomi”. Per questo è stata lanciata una petizione su Change.org, indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro della Salute Roberto Speranza, che in un paio di giorni ha superato le 37mila firme. “Siamo in una situazione paradossale: il territorio è stato messo al riparo con chiare istruzioni con istruzioni chiare di distanziamento sociale, gli ospedali no e rischiano di diventare sedi di contagio“.

La politica in questi giorni ha ricordato spesso le condizioni durissime in cui lavora il personale ospedaliero: ieri il premier Giuseppe Conte ha sottolineato che la “priorità è la sicurezza di medici e infermieri”, e che il governo è impegnato a “a procurare in tempi brevissimi i dispositivi di protezione che consentano loro di lavorare in massima sicurezza”. Eppure per chi lavora in corsia spesso è difficile ottenere perfino un tampone, nonostante il contatto continuo con pazienti potenzialmente infetti. L’articolo 7 del decreto legge entrato in vigore il 9 marzo prevede che i sanitari entrati in contatto senza protezioni con pazienti di Covid-19 – che magari hanno scoperto dopo di essere contagiati – non siano più posti obbligatoriamente in quarantena. Se il tampone è negativo e non mostrano sintomi, possono tornare a lavorare: “Per essere sottoposti al test devono sorgere sintomi respiratori importanti, o la febbre. Ma passa troppo tempo da un contatto a rischio alla risposta: nel frattempo vivono nell’angoscia di essere un rischio per i colleghi, per i familiari, per i genitori”. Una possibile soluzione, suggerisce Palermo, è in campo una procedura condivisa: “Chiediamo almeno 72 ore in isolamento e poi il tampone, magari con un ulteriore tampone di controllo a distanza di giorno, in questo modo mettiamo in sicurezza medici e infermieri, e soprattutto i pazienti: in ospedale ci sono immunodepressi, trapiantati, oncologici. Bisogna pensare a loro, che rischiano moltissimo”.

Un altro problema è la cronica mancanza di dispositivi di protezione individuale, continuamente segnata in diverse Regioni. Servono soprattutto le mascherine FFp2 FFp3, perché, a differenza delle chirurgiche, ‘filtrano’ l’aria che si respira. “Sono indispensabili per manovre come le intubazioni e le gastroscopie, che generano un aerosol, e sono queste goccioline, il famoso droplet, a diffondere il virus”, spiega ancora Palermo. Il sindacato chiede anche che venga abolito immediatamente il divieto, che alcune aziende ospedaliere hanno imposto, di indossare le mascherine negli spazi comuni. Ormai, sottolinea, i contagiati non sono confinati nei reparti di pneumologia e malattie infettive, ed è impossibile riconoscere un asintomatico. “I medici e gli infermieri – scrivono – potrebbero diventare fonte loro stessi di infezione, per cui deve essere obbligatorio indossare mascherine chirurgiche, guanti e visiere”. Altrimenti quelle strutture che dovrebbero assistere i malati, rischiano al contrario di diventare dei focolai.

Prima di assumere nuovi medici, prosegue, bisogna proteggere al meglio il personale esistente: “Adesso tutti parlano della mancanza di medici, che noi denunciamo da dieci anni – conclude Carlo Palermo – Ora pagano il prezzo più elevato, perché non possono mettersi in isolamento né essere sostituiti”. Da un lato c’è ovviamente bisogno di medici – mai come in questo momento – ma dall’altro lato c’è il diritto alla salute, che va garantito sempre e comunque. “In caso contrario – scrive il sindacato dei medici – gli ospedali diventeranno l’unica area di contagio del paese, anziché di cura”.

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