C’è una nuova persona da intubare. L’ennesima. I medici anestesisti si scambiano una rapida occhiata: il reparto di terapia intensiva è al limite. Quando il quadro clinico è grave, i pazienti vengono intubati direttamente in ambulanza; altre volte, come questa, avviene un crollo quando sono in ospedale. E allora l’operazione va fatta lì. Servono azioni precise, attente, che solo rianimatori e infermieri specializzati possono compiere. Il paziente, come sempre più spesso accade col Covid-19, viene girato a pancia in giù per facilitare la respirazione. Poi, sulla macchina che funge da polmone artificiale, vengono calibrati atti respiratori, pressione di insufflazione e la quantità d’aria e ossigeno (il cosiddetto volume corrente).
All’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo gli operatori sanitari stanno combattendo il coronavirus da settimane. Qui arrivano i pazienti più gravi della provincia maggiormente colpita dal nuovo virus (fino a ieri sera i positivi erano 2.864). Ma la terapia intensiva, nonostante i posti siano stati ampliati al massimo, è satura. Delle 76 postazioni (12 sono di terapia sub-intensiva) non ne resta una libera. I medici stanno usando tutte le armi che hanno a disposizione, compresi i farmaci sperimentali. Compreso il farmaco contro l’artrite, il Tocilizumab. Il problema, però, è che la risposta varia da malato a malato. E, di fatto, il sistema rischia di non reggere. “Nessun farmaco adottato ci ha fatto dire: ‘Ecco, questa è la svolta’. Sin qui abbiamo ricavato solo impressioni. Qualcuno guarisce, qualcun altro no. La verità è che siamo al collasso”, racconta una fonte qualificata dell’ospedale. Un concetto già espresso, in maniera differente, dall’assessore al Welfare della Regione, Giulio Gallera: “È da una settimana che arriviamo a fine serata con soli 15 posti liberi in Lombardia“. Non è un caso che a Bergamo, da giorni, sia pazienti positivi sia pazienti negativi vengano portati nel Lazio, in Friuli-Venezia Giulia e in Veneto.
Al momento i provvedimenti assunti dal governo non hanno dato risultati concreti. Gli effetti dell’isolamento si vedranno tra 10-14 giorni. Ed è quest’arco temporale che spaventa chi lavora tutti i giorni in prima linea coi malati. Rianimatori e anestesisti, oltre agli sforzi enormi che stanno mettendo in campo da fine febbraio, non sanno che fare. Per questo la richiesta – e la speranza – è che Regione ed esecutivo trovino un’intesa per la creazione di strutture ad hoc sul modello degli ospedali, poi dismessi, di Wuhan. A quel punto servirebbero nuovi medici e infermieri. “Li recluteremo da Venezuela, Cuba e Cina“, ha annunciato Gallera per far fronte alla carenza, in Italia, di quelle figure professionali. Al Papa Giovanni XXIII, intanto, sono stati assunti specializzandi del quarto e del quinto anno, che ora seguono i turni dei colleghi più “esperti”. Il problema, però, resta: perché per lavorare in terapia intensiva non ci si può improvvisare da un giorno all’altro.
Tra i 44 infermieri e i 12 medici della Rianimazione, al di là dello stress per i turni massacranti (un riposo ogni due settimane, se va bene, uno al mese, se va male) è subentrata un po’ di paura. Tra i positivi al Covid-19, infatti, ci sono diversi colleghi. E la notizia della morte dell’operatore del 118, 47enne senza patologie, li ha scossi. “Le ore che passiamo qui dentro non le contiamo più, è saltato tutto. Siamo stremati, ma continueremo finché riusciremo. Ai cittadini diciamo di aiutarci: restate a casa e rispettate le regole”.
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